Medieval Bound è un taccuino di studio sull’Europa del XV secolo, attraverso mappe, raffigurazioni e testi che accennano all’immaginario di quel tempo. Dalle isole egee ai porti del Mediterraneo, crocevia della memoria nel periodo umanista. Tra i testimoni di quell'epoca, il cartografo fiorentino Cristoforo Buondelmonti.
Il Quattrocento Europeo
e Mediterraneo
All'inizio del Quattrocento il Mediterraneo era un teatro complesso di potere, commercio e conflitti. Città italiane come Firenze, Venezia e Genova operavano reti mercantili estese, mentre le isole e le coste orientali erano governate da entità locali, ordini religiosi-militari come i Cavalieri Ospitalieri, e minacciate da incursioni di pirati e corsari quanto dall'espansione militare e politica dell'Impero Ottomano.
In questo contesto, figure come Cristoforo Buondelmonti operavano tra circoli di studio, biblioteche e porti del Mediterraneo, raccogliendo informazioni geografiche, politiche e culturali che poi traducevano in mappe e manoscritti, contribuendo allo sviluppo della conoscenza cartografica e della rete di sapere umanistico del XV secolo.
Cristoforo Buondelmonti
"Cristoforo Buondelmonti, un uomo della scienza della cosmografia, degli studi della geografia quanto di tutta la letteratura umana; estroverso nella dialettica, brillante nello spirito e in grado di parlare tre lingue."
(Poccianti M., Catalogus illustrium scriptorum Florentinorum)*.
Famiglia Buondelmonti
I Buondelmonti sono stati un'antica e famosa famiglia nella storia della Firenze medievale. La loro origine e il loro destino come la sorte di alcune nobili famiglie di allora è inevitabilmente legato alla storia politica, economica e sociale della città toscana.
Di recente la storiografia ha fornito indicazioni su alcune famiglie fiorentine nel periodo tardo medievale e sulle dinamiche economiche e matrimoniali che in taluni casi ne hanno decretato l'estinzione.
Appartiene a quest'ultimo caso anche il destino della famiglia Buondelmonti, una delle più ricche ed importanti, che ha finito nel corso dei secoli, seppur protagonista della vita cittadina, ad avviarsi verso il definitivo declino con la conseguente estinzione che giungerà definitivamente nel 1774, con l'ultimo erede Francesco Gioacchino di Giuseppe Maria Manente.
Titolari di fondi, di cospicue proprietà e di possedimenti sia in città che nei vari contadi del fiorentino, con le loro pievi e chiese a fruttare, i Buondelmonti oltre ad essere i principali proprietari laici, potevano esercitarne il diritto di patronato con importanti rendite.
La famiglia Buondelmonti si rese celebre per una discordia accaduta nel 1215 a Buondalmonte de' Buondalmonti, che fu ucciso per non aver mantenuto una promessa di matrimonio. I conseguenti affronti provocarono vendette in pubblica piazza e dettero origine ad una divisione politica della città, spaccandola in due fazioni, i guelfi, con i Buondelmonti, sostenitori del Papa e i ghibellini, legati all'Imperatore.
Tra i cronisti di questa discordia ci furono Dino Compagni, Giovanni Villani e Dante Alighieri che, nella Divina Commedia, rese sia notorietà che impopolarità ai Buondelmonti, attribuendone la responsabilità della divisione interna quanto ai contrasti tra cittadini, l'inizio della decadenza di Firenze e la fine della pace per i suoi abitanti, una crisi dove anche lui si troverà immischiato"... O Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze sue per li altrui conforti! Molti sarebber lieti, che son tristi, se Dio t'avesse conceduto ad Ema la prima volta ch'a città venisti... " (D.A., PARADISO., XVI, 140-145), a rimarcare in questi versi che se il primo antenato dei Buondelmonti, arrivando a Firenze, si fosse tuffato nel torrente Ema (annegando), la città non sarebbe stata vittima di fatali lotte intestine.
Un avvenimento che sottolinea comunque sia l'influenza quanto il potere che esercitarono i Buondelmonti nella città essendo infatti collocati dal sommo poeta, nella sua Commedia, in Paradiso, nel cielo di Marte, tra le quaranta antiche onorabili famiglie della città.
Cristoforo Buondelmonti, primi anni e studi
Figlio di Ranieri Buondelmonti, Cristoforo nasce a Firenze nel 1385 e cresce in una città vivacissima, progressista e mossa da un piglio d'ingegno ed un estro creativo difficilmente riscontrabili nel resto d'Europa.
Di certo il giovane Buondelmonti frequentava il Circolo di Santo Spirito, prendendo qui l'interesse sia per gli autori classici che per la geografia, la cartografia, l'antica architettura precristiana, tuttavia egli scelse di intraprendere la carriera ecclesiastica, certamente consapevole, al di là della vocazione, che amministrando una parrocchia in città o una pieve nel contado, avrebbe avuto un'annuale sicura rendita. Percorso che svolse nella Chiesa di Santa Maria sopr'Arno in Firenze (chiesa che non esiste più), sotto il patronato della famiglia Buondelmonti fino al conferimento del titolo di archipresbitero.
I codici della Geografia di Tolomeo, visti e discussi al Circolo di Santo Spirito con Niccolò Niccoli e Guarino da Verona, hanno indubbiamente catalizzato l'interesse del giovane umanista verso l'antica ma non così lontana Grecia, dandogli la forza di arrivare ad imbarcarsi in un viaggio all'esplorazione e alla registrazione documentaristica del periglioso arcipelago del Mar Egeo.
Viaggi e soggiorni nel Mediterraneo
Il cartografo partì da Firenze nella primavera del 1414 per imbarcarsi forse ad Ancona o da Venezia, più numerosa di galee per la Grecia. È molto probabile che Rodi come residenza e punto di riferimento sia stata decisa già qualche anno prima da casa, individuata dalla cerchia fiorentina. L'area geografica che interessava era stata in gran parte sotto la dominazione occidentale sin dal XIII secolo.
Risiedendo nell'isola di Rodi, a quel tempo governata dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni, con la loro potente flotta che gli garantiva viaggi sicuri in momenti pericolosi e muoversi avendo sempre un porto protetto su cui contare.
Fin dal XIII secolo erano presenti a Rodi banchieri, mercanti e commercianti di diverse famiglie fiorentine come i Bardi, gli Albizzi, i Peruzzi, gli Strozzi e soprattutto gli Acciaioli, ai quali il Buondelmonti era imparentato e che lì, come nell'Epiro, avevano fondi commerciali e possedimenti. L'isola godeva anche di un centro di studi e ricerca sui testi classici greci, minore rispetto ad altri ma comunque importante per apprendere e discutere, più che sufficiente per iniziare.
Non è da escludere la possibilità che sia rientrato più volte a Firenze, come testimoniano molte opere conservate in diversi codici manoscritti firmati Buondelmonti e sparsi nelle biblioteche di tutta Italia e d'Europa, con date che si estendono fino alla fine del XV secolo. Gli studiosi concordano che sull'isola di Creta soggiornò e stette almeno tre volte, un'area certamente molto più estesa rispetto all'isola di Rodi, se pur meno congeniale ai progetti e alla serenità nell'azione del cartografo; sarà documentata, come il tempo trascorso a Costantinopoli, dove avrà soggiornato più volte (WEISS, 1964, p. 106; VAN DER VIN, 1980, p. 135), saranno tappe decisive per l'importanza dei suoi codici.
Le opere principali
La celebrità del Buondelmonti come cartografo è fondata principalmente su tre manoscritti, che senza dubbi gli sono attribuiti: la Descriptio Insulae Candiae o Cretae (1416-1422), il Nomina Virorum Illustrium (1423) e soprattutto il Liber Insularum Archipelagi (circa 1419-1430), opera, riscritta per quattro volte (l'edizione definitiva è del 1430) di cui una versione lunga ed elegante ed una breve, entrambe in latino, una terza versione in dialetto veneto e la quarta in dialetto marchigiano.
La Descriptio Insulae Cretae, il primo codice-modello dove il cartografo descrive l'isola di Creta, fatto dopo il 1416, su richiesta del mecenate fiorentino Niccolò Niccoli, cui fu in contatto via epistole, mentre la terza opera il Nomina Virorium Illustrium (Le vite degli uomini illustri), su richiesta di Giano di Lusignano (Genova, 1375 – Nicosia, 25 giugno 1432), re dell'isola di Cipro, visto il successo e la diffusione delle sue opere, già dopo pochi anni di presenza nell'arcipelago Greco.
Committenti e contesto politico
La seconda opera, il Liber Insularum Archipelagi fu commessa per Giordano Orsini, influentissimo cardinale appartenente ad una delle più potenti casate di Roma e dei vicini castelli, insieme ai Colonna, ai Savelli, agli Annibaldi e ai Caetani, fin dal secolo XIII le famiglie dominanti tra accordi, paci, dissidi o in guerra tra loro.
Un ramo della famiglia Orsini, in quel periodo, assecondando la politica dei pontefici romani si garantì nuovi territori e castelli nell'area e Giordano Orsini fu uno dei cardinali chiave in uno dei momenti più complessi della storia della curia romana.
Uomo del Quattrocento, l'Orsini interpretò il controverso spirito dei suoi tempi, spietato e avido di potere quanto dotto umanista con la passione per i manoscritti e i codici antichi; ne acquistò molti per arricchire la sua biblioteca e il Buondelmonti fu uno dei suoi contatti, nei confronti del quale, non ne fece soltanto cartografo da proteggere e supportare economicamente, ma anche uomo di fiducia d'oltremare, una terra di confine, in pericolo e da difendere.
Il Liber Insularum Archipelagi, riguarda tutto l'arcipelago greco. All'interno oltre alla descrizione di tutte le isole e al solenne Monte Athos, recensì le poche città che reputò più significative per quei tempi, con disegni e commenti. Sempre brevissimo su Gallipoli, accennato più o meno su Atene e le sue rovine, mentre su Costantinopoli cui fu molto colpito, ci sono figure, illustrazioni ed una mappa che diventerà in assoluto il riferimento come immagine di città medievale, rimanendo oltretutto la mappa più antica ad essere sopravvissuta, della città di Istanbul, precedente alla conquista turca del 1453.
Fin dall'inizio della moderna ricerca archeologica nell'Egeo, le descrizioni e le mappe delle varie isole raccontate da Cristoforo Buondelmonti hanno spesso rappresentato il punto di partenza per qualsiasi studioso interessato a ricostruire la storia di una determinata isola e verificare lo stato di conservazione dei suoi monumenti.
Le sue indagini sulle antichità e i suoi rigorosi metodi di compilazione, sono le prime espressioni e i primi sforzi ispirati a quella 'forma mentis' cui si rifaceva l'umanesimo fiorentino del primo Quattrocento.
Cristoforo Buondelmonti ebbe interessi in archeologia, epigrafia, inventò un nuovo genere letterario, fu abilissimo procacciatore di manoscritti greci, essendo stato il primo ad aver portato autori classici come Aristotele, Platone, Vitruvio, Cicerone, Libanio, Plutarco, Terenzio, Plauto, Tolomeo e Plinio il Vecchio, e quel codice racchiudente l'allora sconosciuta Hieroglyphica di Orapollo, il primo trattato per interpretare e comprendere i geroglifici egizi.
Ruolo diplomatico e ultimi anni
Come la sua storiografia e le sue cronache evidenziano, il Buondelmonti, nel suo vivere in terra greca, da buon diplomatico usava presentarsi in maniera diversa a seconda di chi aveva di fronte: ai religiosi italiani come arciprete fiorentino, a quelli occidentali come presbitero latino, ai cristiani orientali quale diacono dell'isola di Rodi e quindi anche confidente e cappellano dei Cavalieri di San Giovanni.
Usava poi appellarsi cittadino di Firenze durante le fasi di mercanteggio, mentre il legame di stretta parentela che lo legava a famiglie molto influenti nell'area dell'arcipelago come gli Acciaioli, i Tocco e gli Spada lo sfruttava spesso nei momenti di tensione o di pericolo tra le molte isolette del mar Egeo.
È stato un uomo che si è certamente mosso per conto della curia latina quale agente in rebus, referente e diplomatico, non a caso nel libro-elenco di uomini e donne illustri, su espressa richiesta del committente, il dominus re Giano di Lusignano, compare anche il suo nome.
Sul Buondelmonti e sulla sua presunta morte, molti hanno indagato e i dubbi restano. Nel giugno 1430 si trova a Rodi, ed è l'ultima data che lo testimonia in vita. Due atti di presenza dove "Cristoforus Bondalmontibus" era titolato quale decano per la chiesa cattedrale di Rodi, da bolla papale di Martino V (nato Oddone Colonna).
Se pur il decanato, era a Rodi un titolo con bassissima remunerazione, era di alta onorificenza, in quanto secondo dignitario dell'isola dopo l'arcivescovo di Colossi. Ultimo atto ufficiale che testimoni la sua presenza nell'isola e in vita è il 24 giugno 1430.
Dell'umanista fiorentino non sappiamo la data certa della sua morte, anche se più studiosi sostengono, col beneficio del dubbio, che potrebbe essere stata nella violenta ondata di peste nera che travolse Rodi nel 1431, come descritta dai cronisti di allora e da fonti seguenti. La possibilità che l'agente fiorentino sia rimasto in vita e abbia assistito alla caduta di Costantinopoli nel 1453 non può essere assolutamente esclusa, considerando che inserti e aggiornamenti coevi e dei primi decenni seguenti, attribuiti a Cristoforo Buondelmonti, possano esser stati fatti da lui in persona.
* Citazione ripresa da Poccianti, Michele. 'Catalogus scriptorum Florentinorum omnis generis, quorum, et memoria extat, atque lucubrationes in literas relatae sunt ad nostra vsque tempora. Florentiae: apud Philippum Iunctam,' 1589. [Editore, Filippo Giunta, 1589]
Vedi: SINISCALCHI S.- Gli orientamenti delle ricerche storico-cartografiche e cartografico-storiche in Italia. Una rassegna bibliografica ragionata degli ultimi trent'anni attraverso gli indici delle principali riviste geografiche italiane in Storia della cartografia e Cartografia storica, (a cura di) GUARDUCCI A., ROSSI M., Aspetti teorici e metodologici, 1987-2016, Geotema, n. 58, Anno XXII, settembre-dicembre 2018, pp. 8-16; DA BISTICCI V., Le vite, (a cura di) GRECO A., voll.2, Firenze, Istituto Nazionale di Studio sul Rinascimento, 1970-1976; BERTOZZI T., I viaggi, i traffici e le scoperte del fiorentino Cristoforo Buondelmonti nella Grecia del XV secolo. (consulenze a cura di) MAZZI M.S., Università degli Studi di Ferrara. Dipartimento di Scienze Umane. Dottorato di ricerca in Modelli e linguaggi, tradizioni nella cultura occidentale, XVI ciclo, Ferrara, 2004, pp. 280, ricerca custodita e conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Cod. TDR 2004 3368; RADIF L., Cristoforo Buondelmonti e Penia di Rinuccio Aretino, Interpres: rivista di studi quattrocenteschi, Miscellanea, Volume 28, Roma, 2009, pp. 222-236; VAN SPITAEL M. A., Cristoforo Buondelmonti, Descriptio Insule Crete et Liber Insularum, cap. XI: Creta, (a cura di), Hèrakléion Krètès, 1981, pp. 345+XXII pl.; VAN DER VIN J.P.A., Travellers to Greece and Constantinople, Ancient Monuments and Old Traditions in Medieval Travellers' Tales, Volume I, Chapter VII Geographers 2. Cristoforo Buondelmonti, Nederlands Historisch-Archaeologisch Instituut Te Istanbul, Printed in Belgium, 1980, Nederlands Instituut voor het Nabije Oosten Noordeindsplein 4a-6a, 2311 AH Leiden, Nederland, 1980, pp. 133-149; GEROLA G., Le vedute di Costantinopoli di Cristoforo Buondelmonti, in Studi Bizantini e neoellenici, III, 1931, pp. 249-279; LITTA P., Le famiglie celebri italiane, tav. I-XII. e segg., sub voce Buondelmonti, Milano, 1819; BEC C., Cultura e società a Firenze nell'età della Rinascenza, Salerno Ed., Roma, 1981, pp. 365; WEISS R., Un Umanista Antiquario: Cristoforo Buondelmonti. Lettere Italiane, vol. 16, no. 2, 1964, pp. 105–116; PERREAULT A., «Le Liber Insularum Archipelagi: cartographier l'insularité comme outil de légitimation territoriale», Memini, 25, 2019, https://journals.openedition.org/memini/1392 ; DOI : https://doi.org/10.4000/memini.1392
BUONDELMONTI C., Liber Insularum Archipelagi, libera in rete, https://openmlol.it/media/cristoforo-buondelmonte/liber-insularum-arcipelagi-christoforo-buondelmonti/1294937
Rappresentazioni di alcune isole dell'Egeo realizzate da Cristoforo Buondelmonti, estratte dal Liber Insularum Archipelagi (1422).
Rodi Creta Andros Chios
LA GEOGRAFIA E LA CARTOGRAFIA NEL XV SECOLO
Geografia è il trattato di Claudio Tolomeo che, nel II secolo d.C., definì la rappresentazione matematica della Terra. La sua riscoperta nel XV secolo aprì alla cartografia e alla geografia matematica dell'Umanesimo.
Qui sotto si vede la Mappa della Grecia, nell'edizione di Francesco Berlinghieri (1482, Codice esposto alla biblioteca dell'Accademia della Crusca). Mentre la mappa dell'ecumene di Tolomeo, con dettaglio, è ripresa da Nicolaus Germanus, in Cosmographia Claudii Ptolomaei (ante 1467). Proveniente dalla Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 30. 4, c. 70v (part.). Estratti da Wikipedia, the free encyclopedia.
"Qui alla frontiera cadono le foglie,
e benché i vicini siano tutti barbari e
tu, tu sia a mille miglia di distanza,
sul tavolo ci sono sempre due tazze."
(Dinastia Tang, Talas, Du Huan 771 d.C.)
Tra il 1400 e il 1472 si stima che fossero in circolazione poche migliaia di carte geografiche; tra il 1472 e il 1500 circa 56.000. Dopo cento anni, alla fine del XVI secolo se ne potevano contare più di un milione (BROC, 1996, p. 42).
La spropositata differenza numerica che si è avuto da inizio a fine del XVI secolo fu causata in parte dalla progressiva alfabetizzazione che apportò la corrente umanista italiana, estendendo la diffusione, provocando in questo modo lo sviluppo e l'esigenza di richiesta dell'economica carta in fibra di canapa da usare per scrivere testi, manoscritti e codici rispetto all'usuale pergamena. Decisiva poi l'introduzione (intorno al 1450) e il consolidamento della stampa a caratteri mobili, fondamentale nella moltiplicazione dei manoscritti, grazie al procedimento ideato a Magonza dall'orafo Johannes Gutenberg, in cui testi di qualsiasi natura potevano essere pubblicati in modo più veloce, economico e in maggiore quantità. La dinamica complessiva di questa impresa creò a sua volta un nuovo settore di attività economica, quello dell'editoria.
Il primo libro stampato dal Gutenberg con la nuova tecnica fu la «Bibbia a 42 linee» (1453-55). In tre anni ne furono prodotte 180 copie, 48 delle quali sono arrivate fino a noi. Quaranta copie furono stampate su pergamena e 140 su carta di canapa. Questo modello si diffuse poi in tutta Europa e già nel 1480 erano presenti nel continente ben 110 macchine da stampa, 50 delle quali in Italia.
La pagina fatta in pergamena era molto costosa, richiedeva tempo per essere prodotta e inoltre, contenendo una grande quantità di collagene, creava uno strato di rivestimento particolarmente sensibile alle condizioni ambientali, all'umidità e ad improvvisi cambiamenti climatici che ne causavano grinze e restringimenti, dettaglio di non poco conto per quanto riguarda le carte geografiche e le mappe.
La carta sino-araba fu determinante, grazie alla facile reperibilità della materia prima per produrre la foliatura, divenendo sempre di più il mezzo attraverso il quale si trasportavano conoscenza e informazioni in maniera più rapida e favorendone quindi una più ampia diffusione, estendendo così progresso e crescita di scienze e cultura in gran parte del continente occidentale europeo. Un know-how sul processo di fabbricazione che proveniva dai paesi di tradizione araba, già da molti secoli abili in questa tecnica acquisita.
Nel 751 d.C., la dinastia persiana del califfato Abbaside, insieme a numerosi contingenti tibetani guidati dall'imperatore Tride Tsuktsen, combatté contro gli eserciti cinesi della Dinastia Tang (唐朝, Tángcháo, 618-907), sconfiggendoli in un importante scontro lungo il grande fiume e nell'area intorno alla città di Talas (oggi nell'attuale Kazakistan), ricordato come "la battaglia del Talas" (HOBERMAN, 1982, pp. 26-31).
Un evento di portata enorme, per l'estensione d'influenza geopolitica Abbaside, la conquista delle regioni centro-asiatiche della Transoxiana, delle molte, la Sogdiana, regione storica dell'Asia Centrale (comprendente gli attuali Uzbekistan meridionale e Tagikistan occidentale), la cui lingua fu quella franca del commercio, almeno fino alla conquista araba. I Sogdiani furono gli artefici principali di quell'impollinazione di idee e tradizioni che fu ponte da una civiltà all'altra (FOLTZ R.C., 2013, pp. 23-29). Una ricca e dotta regione, con città come Balkh e Baykand prospere e vivaci, Bukhara, ricca e istruita negli studi filosofici e sapienziali, la leggendaria Afrasyab nella sua pittura e nelle arti (poi completamente distrutta dall'invasione di Genghiz Khan nel XIII sec.) e Samarcanda, il capoluogo; città influente e poliedrica, centro economico e punto nevralgico della Via della Seta, rete viaria che univa Asia ed Europa. Un canale per lo scambio di mercanzie più e meno pregiate, ma anche di idee e di nuove tecnologie. I mercanti e le guide erano in gran parte di lingua iranica e si professavano diverse religioni tra le quali: lo Zoroastrismo, l'Ebraismo, il Buddhismo, il Cristianesimo e il Manicheismo (Id., 2013, pp. 23-29).
Dopo la battaglia di Talas, rimasero prigionieri di guerra alcune migliaia di soldati cinesi, alcuni di loro conoscevano tecniche segrete su polvere da sparo, lavorazione carta e lavorazione seta. In più, Du Huan, narratore e storico cinese, che fu catturato dall'esercito abbaside nella battaglia di Talas, al suo ritorno in Cina, pubblicò i suoi scritti di viaggio, documentando che i mestieri cinesi come il metodo di tessitura della seta e la lavorazione della canapa [1] erano praticati dai prigionieri di guerra Tang, in gran parte costretti a vivere nel territorio controllato dagli Abbasidi, taluni deportati fino a Damasco (HYUNHEE, 2012, p. 25).
La tecnica del processo di fabbricazione di carta a fibra vegetale, in prevalenza canapa, al di fuori dei confini d'influenza cinese si diffuse velocemente tra gli Abbasidi essendo molto richiesta fin da subito. Con il progredire della sua commercializzazione si dette vita a laboratori a produzione locale, anche se rudimentale, ma fu solo dopo la costruzione della prima cartiera nella capitale imperiale Baghdad, nel 794-795, che la carta fu prodotta in tutto il mondo islamico ed iniziò a sostituire il papiro cambiando il supporto cui trasferire il sapere. Sarà determinante per la diffusione del processo comunicativo a favorire la diffusione dell'Islam in territori lontani dai luoghi di origine.
La fabbricazione della carta permise di dare ancora più vigore alla diffusione e alla promozione del Corano, ma anche alle opere di scienza, medicina, letteratura e a partire dal IX secolo ad essere impiegata regolarmente per la produzione dei libri. L'avanzamento della tecnica di fabbricazione della carta determinò la moltiplicazione di libri e la nascita di biblioteche aperte al pubblico già dall'inizio dell'XI secolo. Ci furono laboratori di fabbricazione della carta realizzata con canapa e lino a Samarcanda, Damasco e soprattutto nella nuova capitale del sultanato abbaside, Baghdad,[2] che fu la rivale di Bisanzio per bellezza e potenza fino a meta del XIII secolo; si diceva fosse la città più ricca del mondo e il più grande centro di attività intellettuale dell'epoca, con una popolazione di oltre un milione di persone.
La rivoluzione della carta di canapa fu basilare nell'incremento alla moltiplicazione di testi che portarono allo sviluppo dell'età dell'oro islamica. La tecnologia della fabbricazione della carta di canapa fu quindi trasmessa al mondo islamico e successivamente all'Europa.
La carta araba in Europa giunse solo ad inizio dell'XI secolo, importata da Damasco attraverso Costantinopoli, dall'Africa attraverso la Sicilia, ma anche dall'occidente marocchino salendo in Spagna; la prima rudimentale cartiera spagnola fu aperta nel 1009 nei pressi di Cordoba, mentre il primo luogo di lavorazione più strutturato fu nella terra valenciana di Xàtiva, nel 1150. All'inizio fu un prodotto considerato mediocre e poco affidabile, un materiale di scarsa resistenza e di poca qualità, se paragonato alla pergamena, al punto che, in Sicilia, in un editto del 1221, alla corte del re Cremisi, Federico II Hohenstaufen, se ne proibì l'utilizzo per gli atti pubblici di alto rilievo. Allo stesso tempo, però, lo svevo Federico II, detto stupor mundi, fu chiaramente in favore della carta se utilizzata per scritture private e documenti amministrativi di secondaria importanza: la sua stessa cancelleria promulgava infatti mandati e manteneva registri cartacei.
Nonostante le resistenze iniziali, essendo comunque abissale la differenza tra i costi, la reperibilità dei prodotti e i tempi d'opera, l'uso e il consumo di carta non fece che aumentare, vista la sua complessiva economicità. Nel XIII e nel XIV secolo le flotte mercantili del Mediterraneo e dell'Adriatico, finanziate da grossi commercianti (in gran parte veneziani e genovesi), si spartivano il fiorente mercato (HOBERMAN, 1982, p. 30).
Tutto questo bagaglio tecnologico e culturale fu ciò che, nel XV secolo, rese possibile l'esplosione cartografica in Europa. Non si trattò solo di un aumento della produzione, ma anche di una trasformazione qualitativa che ridisegnò in modo decisivo l'organizzazione dei testi e dei codici e la rappresentazione dello spazio..
Alessandro Bellucci
Cfr. HOBERMAN B., The Battle of Talas, Saudi Aramco World, 1982, pp. 26-31; HYUNHEE P., Mapping the Chinese and Islamic Worlds: Cross-Cultural Exchange in Pre-Modern Asia. Cambridge University Press., 2012, pp. 25–26; BLOCH M., La società feudale, CREMONESI B. M. (Trad.), Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie, Edizione 1, 1999; BIRAN M., Khitan Migrations in Inner Asia, Central Eurasian Studies, 2012, pp. 85-108. BROC N., La geografia del Rinascimento. Cosmografi, cartografi, viaggiatori: 1420-1620, Franco Cosimo Panini, 1996.
Canapa [1] In Cina, le tecniche di fabbricazione della carta erano un segreto di stato e solo certi laboratori e alcuni monaci buddisti padroneggiavano la tecnologia necessaria. In Asia centrale, nelle aree di retaggio culturale cinese, da secoli si conosceva, si produceva e si commerciava carta di qualità. Secondo molti storici cinesi, la carta da fibre vegetali fu inventata nel 105 d.C. da un funzionario imperiale. Recenti ritrovamenti archeologici hanno invece dimostrato il suo uso in Cina almeno 200 anni prima. Il nuovo materiale venne fabbricato a partire da stracci e da fibre vegetali ricavate da canapa, bambù, gelso, salice, etc. L'uso della carta venne diffuso da monaci buddisti in molti paesi orientali (BIRAN, 2012, pp. 85-108). Gli antichi greci coltivavano la canapa e la utilizzavano come materia prima per la fabbricazione di tele, corde e tessuti di ogni tipo, nonché per scopi curativi e per indurre ad una sensazione di lieve benessere. Durante il Medioevo la coltivazione della cannabis in Grecia continuò, ma la sua coltivazione divenne limitata a causa delle guerre successive e della sua occupazione a lungo termine da parte di Franchi, Veneziani e infine i Turchi con gli anni del dominio dell'Impero Ottomano. Usatissima anche dai romani con i loro cannabetum, cioè i terreni coltivati a canapa, sparsi in tutta la penisola italica, lavorata soprattutto per funi, corde e stoffe di diversa qualità, Plinio il Vecchio ne stila una classifica sottolineando le qualità delle fibre di Rosea (presso l'odierna Rieti) e Mileto in Calabria. Stessi usi anche per il mondo islamico medievale (Pisanti S., Bifulco M., Medical Cannabis: A plurimillennial history of an evergreen. J. Cell. Physiol. 2019;234:8342–8351. doi: 10.1002/jcp.27725; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia: Libro 19, Paragrafi 61-65).
Baghdad [2] La nuova città fu scelta in un'area strategica e si presentava, da un lato, sulle rotte commerciali dominanti lungo il Tigri, dall'altra, sia a nord che a sud della città, con il fiume nelle vicinanze - la piccola Baghdad si trovava vicino a un meandro del fiume Tigri - in modo che l'acqua mai mancasse. Progettata come un cerchio perfetto, a quattro corpi di mura, quattro porte rivolte verso i 4 punti cardinali e, al centro della città, la moschea, per seguire la tradizione urbanistica persiano-sassanide secondo l'indicazione platonica di Atlantis. La fondazione della nuova città, sulle rive del Tigri, a nord delle antiche città di Ctesifonte e Babilonia, battezzata "Madinat al-Salaam", città della Pace, anche se la popolazione locale e gli avventori continuarono a usare il nome dell'insediamento preesistente: "Baghdad". La posizione e gli investimenti fatti svilupparono appetito di commerci e curiosità culturale, una popolazione cosmopolita, che si moltiplicò, rendendola il luogo perfetto come fulcro per commercio, affari e formazione; e ciò è attestato dal gran numero di dotti arabi che studiarono e fecero ricerca a Baghdad tra l'VIII e il XIII secolo (DEROCHE, RICHARD, 1998, pp. 183-197). Raggiunse il vertice culturale con la Casa della Sapienza (Bayt al-Ḥikma, in arabo: بيت الحكمة), una delle più importanti istituzioni culturali del mondo arabo, fulcro dell'epoca d'oro islamica, centro di assoluto livello per studio e ricerca di discipline umanistiche, scienze, matematica, astronomia, medicina, chimica, zoologia e geografia, con un ruolo importantissimo nel movimento delle traduzioni in arabo di testi antichi greci e persiani. Baghdad ebbe anche un osservatorio astronomico, il primo del mondo islamico, che fu costruito nell'828 d.C., vedi: AL-KHALILI, 2011, pp. 79-92; BOSWORTH, 1980, pp. 1-21; BIRAN, 2012, pp. 97-100; HYUNHEE, 2012, pp. 25-26; HOBERMAN, 1982, p. 27; AL-KHALILI, 2011, pp. 79-92.
Nella prima immagine la Mappa della città di Baghdad intorno all'800 d.C., con la sua tipica struttura circolare. A seguire l'incipit di un manoscritto del Decameron (ca. 1420), la Bibbia di Gutenberg (1450 ca.) e la Dichiarazione d'Indipendenza americana (4/7/1776). Tutti e tre i documenti furono realizzati su carta di canapa e mista canapa-lino, la tipologia più resistente e diffusa dal Medioevo fino al XIX secolo.
Breve accenno alla Pergamena
La definizione di umanista, a parere di molti studiosi che si occupano del XV secolo, tra i quali O. P. Kristeller[1], venne adottata nel gergo studentesco delle università della penisola italiana di quel periodo verso coloro che si interessavano agli studia humanitatis, quindi un preciso curriculum universitario che riguardava una serie di materie, tra cui grammatica, retorica, dialettica, storia e filosofia morale, tutte collegate con la lettura degli autori classici latini e greci.
I libri che maneggiavano, le fonti a cui potevano attingere, avevano forme e strutture che si modificarono nei secoli.
Il libro dell'antichità classica era detto "volumen" (dal latino volvere: svolgere, srotolare), un foglio di papiro (Cyperus papyrus) arrotolato, mezzo di scrittura ottenuto trasformando i fusti di questa pianta in una superficie flessibile e liscia, lunga diversi metri. Il libro antico era costruito sul rotolo di papiro, formato da più strisce, tagliate precise, incollate di seguito; su di esso si scriveva in colonne parallele e in genere solamente sul "recto", cioè sulla faccia anteriore e non sul "verso", la posteriore.
Il contenuto era all'interno, perché sul papiro si può scrivere solo da un lato, e per leggerlo si dovevano usare entrambe le mani, srotolando da una parte e arrotolando dall'altra (DEROCHE, FRANCIS, 1998, pp. 183-197). Questo era il libro dell'antichità.
Oltre al papiro veniva usata come supporto per la scrittura anche la pergamena, un uso che si diffuse nel II secolo a.C., da Pergamo, in Anatolia nord occidentale, dove tale materiale di scrittura ebbe particolare diffusione a seguito della proibizione egiziana dell'esportazione del papiro (GIRAUDO, 2019, p. 53). La ritorsione avvenne a seguito della decisione di Eumene II, re di Pergamo, di dare vita ad un centro culturale rivale di quello di Alessandria.
A differenza del papiro, la pergamena, anche chiamata cartapecora, è una membrana realizzata con pelle di vitello, pecora o capra, trattata. È di struttura più maneggiabile e si può piegare molto più facilmente.
Scritti su rotoli di papiro o su pergamena, nell'antichità i libri divennero il vero veicolo della cultura. La domanda di libri si sviluppò soprattutto ad Atene nel I secolo a.C. e qui nacquero le prime raccolte private (HODGES, 1964, p. 149). Sono note quelle del tragediografo Euripide o del filosofo Aristotele, mentre altre vennero create dai fondatori delle scuole mediche o filosofiche.
Un vero e proprio commercio librario però si sviluppò a Roma intorno al I secolo a.C. A partire da quest'epoca compaiono i primi editori-librai, per lo più liberti, titolari di tabernae librariae, dove venivano creati e venduti i libri (Ivi, p. 150).
Tra il I e il II secolo d.C. il rotolo fu progressivamente affiancato, prima, e sostituito, poi, dal "codice", formato da fogli ripiegati di papiro o pergamena riuniti in fascicoli e cuciti nel mezzo. I fogli erano scritti su una o due colonne, non solo sul recto, ma anche sul "verso", cioè sulla parte posteriore, consentendo alla scrittura maggiore quantità di testo.
Dopo le invasioni barbariche, oltre che a un rinnovamento nella sfera religiosa, a partire dalla fine del XI secolo, l'Europa andò incontro anche a un periodo di rinascita nel campo economico, sociale e culturale con inevitabili ripercussioni sul diritto. Il sistema vigente, basato in larga parte sulle consuetudini, sui codici longobardi e sui capitolari carolingi, si dimostrò sempre meno in grado di servire una società che diventava ogni giorno più complessa.
La pergamena fu recuperata grazie alla rinascita culturale che si avviò con l'impero carolingio, sostituendo inesorabilmente il papiro, anche perché di rara reperibilità quindi molto costoso.
Nella volontà di arricchire le biblioteche con testi antichi e classici, si andarono via via formando le strutture principali che ospitarono questo processo di codificazione, i monasteri, all'interno dei quali c'erano gli scriptoria, i laboratori dei copisti, affiancati da altri laboratori; preparare la pergamena era un processo che durava mesi, perché bisognava lavare la pelle con la calce viva, raschiarla, poi tagliarla, per avere dei fogli tutti delle stesse dimensioni.
Poi si dovevano fare delle piccole rigature, su cui il copista scriveva il testo; quindi si doveva rubricarla, dividendola in capitoli, operazione, nelle officine librarie, affidata a uno speciale amanuense, detto rubricatore; inizialmente indicati in rosso (dal latino ruber), per cui, da questo termine deriva la parola rubricare (GIRAUDO, 2019, p. 53).
Un foglio di pergamena se lo pieghiamo una volta abbiamo due fogli e 4 facciate, il cosiddetto "folio", se lo pieghiamo due volte ci troviamo con 4 fogli, il cosiddetto formato "in quarto". Tre volte, ci ritroveremo 8 fogli: è un formato più piccolo e questo è "in ottavo". Piegando per 4 volte si creano più piccoli fascicoli, detti "in sedicesimo".
Quando si cuciono insieme diversi fascicoli abbiamo il "codex". Il codex può contenere un enorme numero di pagine, che vengono racchiuse tra i due piatti, inizialmente di legno poi di materiali più leggeri (stoffe, pelle...). E, all'interno, abbiamo un contenuto che può essere molto grande.
Sul dorso del codex viene scritto di cosa si tratta e potremo collocarlo insieme ad altri codex. Rispetto al volumen, il codex aveva 4 vantaggi fondamentali: 1) non aveva bisogno di essere maneggiato con due mani e quindi si potevano consultare vari libri semplicemente lasciandoli aperti; 2) Si poteva scrivere sulle due facciate, importante in un'epoca in cui il materiale per scrivere era scarso; 3) Era più facile da identificare e da riporre; 4) soprattutto, era possibile interrompere la lettura, segnando un punto specifico, per esempio con un segnalibro, e poi si poteva riprendere la lettura nel punto dove era stata interrotta senza aver bisogno di srotolare tutto, come con il papiro (HODGES, 1964, p. 148). Questa fu un tipo di modernizzazione di non poco conto.
Tuttavia dal XIV secolo la carta sostituì progressivamente la pergamena. Più economica e veloce da produrre, la carta permise una diffusione dei testi e della conoscenza in misura molto più rapida, relegando la pergamena a un lento, inesorabile tramonto.
[1] Sull'Umanesimo, nell'amplissima ed eterogenea bibliografia, alcuni degli autori che sono andato a consultare a riguardo: GARIN, 1978, pp. 25-29; KRISTELLER, 1965, pp. 5-10; GIACONE, 1974, Fasc. 1/2, pp. 58-72; BARNEY, 2006, p. 39; SAPORI, 1981, pp. 9-35; RONCHEY S., 2002, pp. 129-140; CAMMAROSANO, 2018, pp. 389.
Umanisti dell'avanguardia
Membri esponenti di una categoria che lo storico polacco Leszek Kołakowski (1) definì "cristiani senza chiesa", furono gli intraprendenti umanisti dell'avanguardia.
Da collocarsi tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV, i fiorentini Coluccio Salutati, NIccolò Niccoli, Palla di Nofri Strozzi, e Cosimo de' Medici tra gli altri, tutti uomini profondamente religiosi, ma non integrati con il sistema istituzionale e dottrinale della chiesa del tempo, i primi a percepire lo spirito di questo nuovo movimento culturale.
La Firenze del tempo
Dopo il dissesto economico e sociale della metà del XIV secolo (causato dai fallimenti bancari, dalla peste nera, dalla carestia e dalle feroci lotte civili), culminato con il Tumulto dei Ciompi del 1378, Firenze si avviò a una ripresa riaprendo i cantieri pubblici interrotti in città. Al Duomo di Santa Maria del Fiore, nel 1391 si avviava la decorazione della porta della Mandorla e nel 1398 iniziava la decorazione delle nicchie esterne di Orsanmichele da parte delle Arti. Nel 1401 veniva indetto il concorso per la porta nord del Battistero.
Sulla ripresa incombeva però la minaccia di Gian Galeazzo Visconti, che aveva accerchiato Firenze nel progetto di creare uno Stato nazionale in Italia sotto il dominio di Milano. Dall'altra parte i fiorentini erano tesi più che mai a mantenere la propria indipendenza, alimentandosi di un forte orgoglio civico che si appellava allo storico motto di "Libertas".
Con l'improvvisa morte del Visconti nel 1402 si allentò la morsa militare sulla città, che permise una ripresa economica.
Nel 1406 venne conquistata Pisa e nel 1421 comprati il castello, la piccola cittadina e il porto di Livorno dalla Res Publica Ianuensis di Genova.
Lo spirito filosofico-culturale di quel momento era ancora quello scolastico, ma correnti nuove correvano: un rinnovato interesse per i testi latini e greci, una crescente attenzione ai problemi concreti della vita civile e del sapere. L'affrancarsi dal dominio teologico significava anche riscoprire un approccio pratico verso il sapere e la conoscenza, un agire più libero e indipendente...
(continua) ...
(1) Leszek Kołakowski, Editore Wydawnictwo Naukowe PWN, 2021, p. 662;Cristiani senza chiesa. ....Cfr. Dizionario di filosofia, 2009 e cfr. GARIN, 1994, pp. 25-49; KRISTELLER, 2005; PELLEGRINI, 2012, pp. 149-160; FIORENTINO, 2016, pp. 552; MULLER, 2012, pp. 382; per Guglielmo di Occam si veda DE GRUYTER, 2010, pp. 21-182; CAMPANINI, 2007 e per Scoto Duns cfr. FIORENTINO F. Città Nuova, 2016.
Città ideale
COSTANTINOPOLI
"Fino ad oggi era rimasto là
il ricordo vivo dell'antica sapienza e,
come se in essa vi fosse la dimora delle lettere,
nessuno dei latini poteva apparire sufficientemente istruito,
se non avesse studiato per un certo periodo di tempo
a Costantinopoli."
(Card. E. S. Piccolomini, epistola a N. Cusano, 21 luglio 1453)*
Tra Europa e Asia, nel Corno d'Oro, l'insenatura dove si radunavano navi di ogni stazza, epicentro del mondo di allora, sia per commercio che per scambi e incontri tra culture differenti. Bisanzio.
La fondazione di Costantinopoli, la città cui Costantino dona il proprio nome, può essere motivatamente considerata un evento epocale, l'esito di una decisione di portata eccezionale, densa di implicazioni e significati (DAGRON, 1987) che è presa all'indomani della sconfitta del rivale Licinio, a Crisopoli, il 18 settembre del 324 d.C.
Nelle intenzioni di Costantino, ormai unico sovrano dell'Impero, la nuova città, che vuole assimilare ed equiparare in forma istituzionale all'antica Roma, oltre a rappresentare un nuovo centro politico nella pars orientalis dell'Impero e una capitale dinastica, deve configurarsi come il monumentale riflesso della gloria del basileus, e come tale è concepita e pianificata, dando forma a un fenomeno urbanistico di eccezionale ampiezza [1]. Poche altre fondazioni di città hanno uguale importanza storica (RONCHEY, 2002; OSTROGORSKY, 1967; BECK, 1994; LILIE, 2003; RUNCIMAN S. Sir, 1977; RAVEGNANI, 2004). L'ambizioso progetto comincia a prendere forma già poche settimane dopo la definitiva vittoria di Crisopoli.
Non si conosce quale fosse la struttura architettonica del vestibolo del IV secolo, ma dalla Vita Constantini di Eusebio di Cesarea (EUSEBIO DI CESAREA, Vita Costantini. III, 3.) si apprende che all'ingresso del Palazzo l'imperatore aveva collocato, in alto, esposto alla vista di tutti, un pannello a encausto[2], in cui egli, sovrastato dal 'segno salvifico', forse un labaro, e accompagnato dai figli, Costantino e Costanzo, era rappresentato nell'atto di trafiggere e scaraventare negli abissi del mare un serpente in forma di drago, forse Licinio, con una emblematica rivisitazione in chiave cristiana del tradizionale tema iconografico della calcatio [3].
La presenza del simbolo cristiano, che in forma ancor più appariscente decorava, come scrive sempre Eusebio, il soffitto della "sala che è fra tutte la più splendida" (Eus., v.C. III, 49.) all'interno del Palazzo, rientra coerentemente nel quadro della teologia politica di Costantino: i 'simboli', la croce e il chrismon – monogramma del Cristo o Chi-Rho – che gli avevano garantito la vittoria, erano diventati i filatteri della regalità e anche i talismani della dinastia dei secondi Flavi.
Sotto tale prospettiva, non sorprende dunque la presenza, accanto al pannello a encausto, di un simulacro della Tiche o Tyche, personificazione della buona sorte ( Τύχη – Týchē), la divinità della mitologia greca che garantiva la floridezza di una città e il suo destino (equivalente romana fu la dea Fortuna) paradigma del felice destino della polis (DAGRON, 1987, p. 131), un'altra immagine di pregnante valenza profilattica, ma pagana, onnipresente nell'arredo urbano della neo-capitale, alla quale, in analogia con Flora romana, Costantino aveva attribuito il nome ieratico di A'ntusa (Ανθουσα) cioè Florida.
Τύχη divenne una componente fondamentale del tessuto concettuale dell'arredo monumentale della città costantiniana: i suoi simulacri furono, infatti, 'strategicamente' collocati nei punti più sensibili' della nuova capitale[4], stabilendo in termini visivi una linea di continuità con le tradizioni di Roma e traslandone implicitamente i valori simbolici in Costantinopoli.
La figura della Τύχη è del resto largamente presente anche nei coni delle contemporanee emissioni monetarie, tra cui un multiplo d'argento, coniato proprio dalla zecca della città nel 330 d.C. [5], che reca sul dritto il profilo di Costantino con il diadema gemmato, cinto la prima volta già nel 324 d.C., in occasione delle cerimonie di fondazione della neocapitale, mentre, sul rovescio, si staglia l'immagine della (Τύχη ᾿΄ Ανθουσα) Týchē - A'ntusa (Tichìantosa), rappresentata secondo lo schema tradizionale, con il capo velato coperto dal modius[6], seduta su un trono provvisto di alto schienale, con la cornucopia e con il piede posato sulla prua di una nave, a significare la vocazione marinara della città [7].
Luca Drolles Bisance
*Estratto dalla lettera di Enea Silvio Piccolomini (1405–1464) eletto pontefice con il nome di Papa Pio II il 19 agosto del 1458, al cardinale Niccolò Cusano, il 21 luglio del 1453, a due mesi dalla presa di Costantinopoli per mano turca, vedi in PERTUSI, 1990, pp. 53-55.
[1] Cfr. BECATTI,1959, pp. 886-914; JANIN, 1964; MULLER-WIENER, 1977; MEYER, 2002, pp. 91-174; MANGO, 2004; per sintesi più recenti, si vedano FRANCHETTI PARDO, 2008, pp. 13-38; SCHREINER, 2009; BERGER, 2011.
[2] Encausto (gr. ἔγκαυστον, énkafston, da ἐν "in" e καίω "abbrucio"; lat. encaustum) è una tecnica di pittura in uso presso gli antichi, che adoperava colori sciolti nella cera fusa, i quali si riscaldavano al momento in cui dovevano essere usati; talvolta la cera era usata insieme con l'olio; cfr. VENTURINI PAPARI, Encausto, Treccani, Enciclopedia Italiana (1932).
[3] Calcatio (Calpestio rituale. noto anche con il nome latino calcatio colli o con il termine greco trachelismos) è un antico rituale, comune nell'arte trionfale e cerimoniale, che denota la totale sottomissione di un nemico sconfitto. Il nemico sconfitto si prostra o giace a terra davanti al dominio vittorioso, che simbolicamente calpesta il collo del primo (collis, trachelos), ma per meglio comprendere il significato dell'immagine in discussione rimando ai suggerimenti della Prof: Barsanti: cfr. MANGO, 2004, pp. 23-24; DAGRON, 1987, pp. 390-391; KRAUTHEIMER R,, 1987, pp. 76-77; DE' MAFFEI, 2011, pp. 191-228.
[4] Per il ruolo attribuito alla Tyché – Τύχη - nella mistica costantiniana e per le sue effigi, cfr. DAGRON, 1987, pp. 40-47, 373-374; KAZHDAN, Constantin imaginaire, 1987, cit., pp. 45, 47, 68, 90, 131, 185.
[5] Cfr. DAGRON, 1987, p. 33; BARDILL, pp. 13-15. Per alcune riflessioni sulle emissioni della zecca di Costantinopoli e i coni di Costantino, si veda sempre DAGRON, 1987, pp. 49-51.
[6] Modius - modio, tipo di copricapo, o corona, a forma di cilindro con un'estremità piana, per approfondire e meglio comprendere: cfr. SEBESTA, BONFANTE, 2001, p. 24.
[7] Cfr. BUHL, 1995; BARSANTI, 2013, pp. 471-475, con note decisive a p. 486. Per la descriptio sulla sua fondazione, con la sublime penna della bizantinista prof. Claudia Barsanti dall'estratto per l'istituto Treccani: BARSANTI, Roma, 2013, p. 471 con note: pp. 484-486. Per quanto riguarda le definizioni di polis e civitas, qui un'introduzione del Filosofo e accademico italiano Umberto Curi (Alle radici dell'idea di città: la polis e la civitas, La Rivista, 2018).
Cfr. anche: MANNERS I. R., «Constructing the Image of a City: The Representation of Constantinople in Christopher Buondelmonti's Liber Insularum Archipelagi», University of Texas, Austin, 2004, Annals of the Association of American Geographers, 87, 1997, p. 72 102; BARSANTI C, Costantinopoli, Estratto, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 2013, pp. 471-491;.RONCHEY S., Lo Stato bizantino, Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 2002; RAVEGNANI G., La storia di Bisanzio, Il timone bibliografico 3, Jouvence, 2004.

La stampa dell'Incisione fiorentina della serie "Mercurio di pianeti" (1460 circa) proveniente dalla bottega di Mario Vinciguerra (1426-1464), Salerno editrice, Roma 1981; Baldini Baccio, I Pianeti, Compilazione di Aldovini Laura, 2011, Pavia (PV), Musei Civici di Pavia, "Questa incisione fa parte di una serie di sette stampe raffiguranti i Pianeti secondo la cosmografia antica. Realizzate a maniera fine, sono attribuite a Baccio Baldini e ritenute fra le più antiche da lui realizzate (precedentemente sono state riferite a Maso Finiguerra). Le composizioni vedono la scena suddivisa in due parti: in alto si vede il pianeta che avanza su un carro trainato da animali simbolicamente a lui legati, in basso sono raffigurate le attività umane promosse dal pianeta che le influenza. Il testo nel margine sottostante descrive la natura del pianeta e dei suoi 'figli', oltre al tempo che il pianeta impiega per percorrere le costellazioni. L'iconografia fonde prototipi d'Oltralpe a elementi prettamente fiorentini, come quelli derivati dalle Genealogie deorum gentilium di Boccaccio, oltre che spiccati riferimenti agli usi e costumi della Firenze medicea. La serie ebbe molta fortuna, tanto che ne venne realizzata una seconda edizione, in formato ridotto (alla quale viene associato, quale ottava tavola, l'Almanacco di cui una copia moderna eseguita a penna è conservata in collezione Malaspina, cfr. inv. St. Mal. 1560, scheda OA). La serie conservata a Pavia (inv. St. Mal. 1585-1591) appartiene alla prima edizione, venne acquistata dal marchese Malaspina nel 1812 dall'abate Mauro Boni (cfr. Vicini 2000), e secondo Hind costituirebbe l'esemplare meglio conservato di quelli oggi noti. La tavola in esame raffigura Mercurio, vestito all'antica, con il caduceo e calzari alati, seduto su un carro trainato da due falchi. Sulle ruote del carro sono raffigurati la Madonna, dimora diurna del pianeta, e il Sagittario (al posto dei Gemelli), quale dimora notturna. Nella veduta urbana sottostante sono stati riconosciuti edifici fiorentini: il Palazzo della Signoria, la Loggia dei Lanzi e la chiesa di San Pier Scheraggio."
www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede/F0130-00295/
"Ma la vis creativa della mente è in grado di produrre lo stupore dell'ancora mai visto eppur verosimile e secondo regole certe."
(L.B. Alberti, De re æd.)



Medicine e rimedi nel Quattrocento
Tra XIV e XV secolo il sapere medico europeo era organizzato secondo la tradizione dettata soprattutto da Galeno (129 – c. 216 d.C.) e Avicenna (980 – 1037 d.C.).
Dal medico romano derivava l'impianto fisiologico e terapeutico basato sugli umori e sull'equilibrio corporeo (caldo, freddo, secco, umido), una sorta di bussola interiore con cui interpretare ogni malessere. Un principio che rimase alla base di diagnosi e rimedi almeno fino a metà del Seicento.
L'arabo Avicenna, invece, offriva uno sguardo più ampio, quasi enciclopedico, che teneva insieme clinica, farmaci, aria, stagioni e perfino influssi celesti. Qualsiasi malanno veniva interpretato come il prodotto di un'aria corrotta, di congiunzioni astrali sfavorevoli e di squilibri ambientali che minavano l'intero organismo. La terapia era la somma di consigli su aria, dieta e comportamenti quotidiani, considerati parte integrante della cura quanto le ricette farmacologiche.
La peste nera, che decimò circa un quarto della popolazione europea, fu studiata dentro queste categorie teoriche, giustificando spiegazioni miasmatiche, prescrizioni dietetiche, norme igieniche e rimedi farmacologici, derivate dalla medicina scolastica e dalla pratica ospedaliera. Il sapere medico era esclusivamente accademico, trasmesso attraverso commenti, compendi e letture; un sistema stabile, in cui l'autorità degli antichi pesava più dell'osservazione diretta.
I medici tuttavia con Consilia, Regimina, Compendi e svariati ricettari unirono tradizione scolastica, osservazioni pratiche e prudenza igienica cercando come mai prima di modernizzare ed aggiungere al conosciuto. In questo quadro si possono comprendere certe scelte e molte stranezze, formule ardite e rimedi improbabili.
La medicina medievale mostrava il suo lato più creativo e audace, un laboratorio di ingegno dove scienza, tradizione, follia, visione e ridicolo convivevano in comica armonia.
Compendium, Consilium e Regimina
Breviari, pareri e regole contro la peste nera negli anni dal 1348 al 1475, tra le reazioni popolari e le imprese mediche.
Giovanni Dondi: salassi, aromi e fuoco profumato
Nel Consilium contro la peste nera di Giovanni Dondi (Chioggia 1330- Abbiategrasso 1388), medico, astronomo, poeta, e orologiaio, si raccomandava il salasso persino sulla testa del malato, in modo da ridurre il sangue infetto dell'organismo. L'abluzione del viso e delle mani con acqua di rose e aceto era considerata ovvia. Foschie e nebbie dovevano essere evitate così come il vento del sud. Il Dondi raccomandava di esporsi, di prima mattina, al fumo di un fuoco ben odorante, ottenuto via legna di quercia, frassino, olivo o mirto. L'aggiunta di balsamo, incenso o legno di sandalo alla fiamma ne rafforzava l'azione disinfettante. Tutti i cibi dovevano essere aromatizzati con sostanze dai profumi molto forti. La carne di vitello, capra, montone castrato, pernice, fagiano e pollo era ritenuta sicura, mentre il pesce, soprattutto di lago, lo riteneva pericoloso. Vino e birra venivano espressamente consigliati, frutta dolce, come ad esempio le pere, facilmente deperibili, doveva invece essere evitata (GABRIELLI, 1984, p. 96).
Dionisio Colle: bacche, cortecce e rimedi naturali
Dionisio Colle da Belluno consigliava ai suoi concittadini, come profilassi e terapia, un rimedio naturale contenente fiori di pesco, centaurea minore e licopodio, uniti a zucchero e nettare, lodava anche l'azione del succo di sambuco e delle piante di euforbia, diluiti in latte di capra. Oltre a ciò sosteneva l'azione anti-miasmatica delle sostanze aromatiche. Era dunque consigliabile tenere in bocca bacche di alloro e di ginepro o ancor meglio cortecce di larici, pini e abeti (Ivi, 1984, p. 96).
Tommaso del Garbo e le antiche panacee
Tommaso del Garbo, fiorentino (1305 – 1370), magister di medicina a Perugia e a Bologna, dal 1368 fu a Milano e Pavia come medico di corte di Galeazzo II Visconti, il che gli consentì di avere Francesco Petrarca fra i suoi pazienti. Nel suo manuale per proteggersi dal contagio consigliava di irrorare gli ambienti con i chiodi di garofano, il cui profumo, secondo la sua esperienza, possedeva un'azione disinfettante. Erano considerati inoltre efficaci, sempre dal Consilium di Tommaso del Garbo, i cibi dolci, conservati in acqua fresca, mescolati a sostanze stimolanti come biancospino, melissa e zucchero, anche se la fuga tempestiva, a suo parere, rappresentava il miglior rimedio profilattico (GABRIELLI, 1984, p. 97). Poi allo stesso modo di Galeno, esortando chi potesse ad alimentarsi a pane intinto nel vino, col supporto delle antiche panacee quali la trïaca e il mitridato.
Trïaca e Mithridatum: elisir della leggenda
La trïaca (dal lat. theriăcus agg., theriăca s. f. θηριακή thēriakḗ, cioè terapia, antidoto) era un farmaco di origine antichissima e di preparazione e composizione molto complesse, che presentava come base fondamentale, sia pur nella diversità delle formule attraverso i secoli, sia il siero che la carne di vipera (latino draco , greco antico: δράκων - drakōn - "serpente"), indicata come capace di combattere i "veleni" prodotti nell'organismo umano dalle malattie, di alleviare i "fastidi" dello stomaco, della testa, della vista, dell'udito, di conciliare il sonno, di rinvigorire e allungare la vita. Gli stessi veleni di vipera quanto di cicuta o arsenico, se assorbiti in quantità o dose crescente, fino al limite di soglia letale, svilupperebbero nell'organismo, dall'entrata di questi antigeni, in risposta anticorpi che, attraverso il tempo – sostiene questo assioma – arricchirebbero la struttura corporea di un habitus, un meccanismo di reazione verso i veleni, riconoscendone l'identità, e neutralizzandone gli effetti, da essere immuni, invulnerabili da veneficio (DEBUS A. G., 1997, pp. 43-44).
Questo ricettario accese la fantasia e il desiderio di molti, infatti la richiesta di questi elisir godette un periodo di particolare fortuna in età medievale e rinascimentale. La dose minima per chi seguiva una profilassi a base di trïaca era rappresentata dall'assunzione giornaliera di una quantità di questa sostanza pari alla dimensione di una nocciola.
Le modalità di somministrazione e il dosaggio della trïaca o teriaca (come più spesso veniva chiamata) variavano a seconda della malattia, dell'età e del grado di debilitazione del paziente. La condizione principale affinché la teriaca fosse efficace era che l'assunzione avvenisse dopo aver purgato il corpo; in caso contrario, secondo le leggende, il rimedio sarebbe stato peggiore del male. La preparazione, per raggiungere il massimo dell'efficacia, doveva esser fatta riposare per sei anni secondo alcuni, per dodici secondo altri. Era considerata attiva e in potenza fino al trentacinquesimo anno, annullando progressivamente, perdendo ogni beneficio, spegnendosi d'attività dopo 50 anni dal tempo della sua produzione.
Tra gli ingredienti di questo polifarmaco, compaiono la resina del benzoino, la mirra, la cannella, il croco, la radice di genziana, la gomma arabica, l'incenso, il rabarbaro, la canapa, il catrame e l'oppio, tra i vegetali. Come componente animale oltre alla carne di vipera sono indicate in alcune ricette le carni di altri animali. La carne di vipera veniva preparata, bollendo in acqua salata e aromatizzata con dell'aneto, ripulita delle interiore e privata di testa e coda. Dopo la cottura, verificata dal suo distacco dalle ossa, si scolava dal brodo, impastata con del pane secco finemente triturato e infine lavorata a mano e divisa in piccole porzioni, modellate in forma di pastiglia rotondeggiante come spiegato dall'antico ricettario: formansi in girellette, onde da' Greci son chiamati trochischi e da' Latini pastilli, poi essiccate all'ombra (Ricettario fiorentino dei medici e speziali; CAPRINO L., 2011, pp. 64-65).
Dal Medio Oriente all'Europa: le teriache di Gerusalemme
In Terrasanta questo preparato era ben noto e veniva esportato in occidente già dal X secolo. Muhammad ibn Sa'id al-Tamimi (Gerusalemme .. - 990 circa) era un medico, farmacista e arboricoltore arabo del X secolo. Decisamente influenzato da De materia medica, un'opera del medico dell'antica Grecia, Dioscoride Pedanio vissuto nel I secolo. Il primo vasto trattato documentato da 5 libri che comprendeva circa un migliaio di droghe naturali (prodotti per la maggior parte delle piante base), 4740 usi medicinali per i farmaci, e 360 proprietà mediche (antidolorifiche, antinfiammatorie, antiossidanti, antisettiche, ecc.). Un precursore della moderna farmacopea ed uno dei più influenti trattati sulle erbe medicinali della storia, in uso fino a tutto il 1600 (Minta Collins, Medieval Herbals: The Illustrative Traditions, The British Library and University of Toronto Press, Toronto, 2000).
Oltre alla sua celebre "guida ai principi fondamentali della nutrizione e alle proprietà dei farmaci semplici", Al-Tamimi si dedicò ad altri importanti lavori medici che includono diversi trattati sulla Teriaca. Si dice che avesse vaste conoscenze in campo medico ed eccellesse nella preparazione di unguenti e medicinali particolari e complessi, ma raggiunse l'apice del suo prestigio nel combinare i vari tipi di ingredienti delle teriache. Il rabbino e medico ebreo Maimonide (Cordova 1135 – Il Cairo 1204) usava e citava ampiamente i libri di Al-Tamimi.
Molte testimonianze, tutte risalenti al X secolo, dimostrano che uno dei centri più importanti del mondo islamico per la produzione della teriaca era a Gerusalemme. Anche i suoi dintorni erano una fonte di approvvigionamento dei singoli componenti della teriaca. Una parte significativa degli ingredienti del medicinale (piante, animali e minerali) provenivano dall'area di Gerusalemme e principalmente dal bacino del Mar Morto che era collegato a Gerusalemme dal punto di vista amministrativo, economico e culturale. Tra i componenti importanti della teriaca, oltre all'oppio c'erano il catrame minerale grezzo di Tiberiade, insieme alle carni e ad i sieri dei serpenti a sonagli che venivano cacciati a questo scopo nella regione del Mar Morto. Felix Fabri (1434 – 1502) teologo domenicano svizzero, scrisse nei suoi libri che, data l'elevata richiesta di veleno, spesso i sultani egizi proibivano la caccia ai serpenti nella zona, per evitare che si estinguessero.
La produzione della teriaca e il suo utilizzo a Gerusalemme sono menzionati in molti scritti con testimonianze dirette, notissime quelle del re crociato Amalrico (che regnò tra gli anni 1162-1174) o di Baldovino IV (1161-1185).
Un commercio e una produzione che continuarono, ad esempio nel XVIII secolo la ricetta venne menzionata in certificati testamentari che stimavano beni di ebrei titolari di farmacie. A metà del XIX secolo il medico svizzero Titus Tobler testimoniò che la teriaca si trovava ancora nelle farmacie ebraiche di Gerusalemme (Book Review: Zohar Amar and Efraim Lev. Arabian Drugs in Early Medieval Mediterranean Medicine. Edinburgh: Edinburgh University Press, 2018).
Questo portentoso medicamento sarebbe stato ideato da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone (I secolo d.C.), il quale descrisse la sua ricetta (De Theriaca) in versi d'elogio, in modo che, grazie alla metrica e alle rime, le proporzioni delle dosi rimanessero meglio impresse nella mente del preparatore. Probabilmente il medico romano la rielaborò partendo dall'antidoto universale di Mitridate (CAPRINO L., 2011, p. 64), panacea di tutti i mali.
Mithridatium e Plinio il Vecchio: tra scienza e arte
Il mitridato (noto anche come mithridatium, mithridatum o mithridaticum) è un elisir leggendario, dell'antichità, usato come antidoto contro i veleni e miracoloso di reputazione. Si dice sia stato creato da Mitridate VI Eupatore del Ponto, nel I secolo a.C., condottiero ricordato come uno dei più formidabili avversari della Repubblica romana, che la costrinse a ben tre guerre, impegnando tre dei più grandi generali di Roma: Silla, Lucullo e Pompeo Magno, per quasi quarant'anni . Questo re mitico, si narra, abbia fortificato il suo corpo contro i veleni, con antidoti e rimedi tali che, quando tentò di uccidersi per non farsi catturare dall'invincibile nemico, non riuscendo a trovare alcun veleno che potesse avere effetto, fu costretto a chiedere a un soldato di trafiggerlo con la spada.
Il mithridatum, che prese il suo nome, fu una delle miscele più complesse e ricercate durante tutto il Medioevo, in particolare in Italia e in Francia, dove fu usata ininterrottamente per secoli (MASTROCINQUE, 1999, Intro; APPIANUS, pp. 111-115).
Celso (Aulus Cornelius Celsus, 25 a.C. circa – 45 d.C. circa), dotto enciclopedista e medico romano, che trattò di discipline pratiche, assieme a discipline teoriche, nel suo trattato "De Medicina", registrò, in base ai suoi dati, la formulazione del "Mithridatium", ben definita nella grammatura, che comprendeva 36 ingredienti, tutti derivati da piante, ad eccezione del miele per mescolarli e del ricino per esaltarne l'aroma. Si stima che la miscela abbia pesato circa tre libbre romane (1 L/R =327,168 g), una razione quantificabile a circa sei mesi, quando preso in piccole porzioni. L'antidoto menzionato da Celso includeva, tra i vari ingredienti: succo d'acacia, cardamomo, oppio, anice, foglie di rosa essiccate, cannella, carote cretesi, zizzania, prezzemolo, edera, semi di papavero, resina di ambra, resina di incenso, zenzero, rabarbaro e zafferano.
Gaio Plinio Secondo (Gaius Plinius Secundus) meglio conosciuto come Plinio il Vecchio, scrittore, naturalista e filosofo naturale, nonché comandante militare e navale dei primi anni dell'Impero Romano e amico dell'imperatore Vespasiano (nacque a Como nel 23 d.C. e morì il 24 agosto 79 d.C. a Stabia per le esalazioni del Vesuvio durante la celeberrima eruzione), "la vera gloria sia fare ciò che vale la pena scrivere e scrivere ciò che vale la pena leggere", diceva. Il Plinius scrisse Naturalis historia, una serie di ricerche e indagini di carattere enciclopedico sui fenomeni naturali che divenne modello esemplare per le strutture di scritti che abbracciano più estensioni della conoscenza. Il comasco, che di questa ricetta ne aveva trovate altre versioni, ancora più numerose per ingredienti, tra il provocatorio e il sarcastico, per definire l'efficacia di questo elisir, scriverà: "L'antidoto mitridatico è composto di cinquantaquattro ingredienti, dei quali non due hanno lo stesso peso, mentre ad alcuni è prescritta una sessantesima parte di denaro. Quale degli dei, in nome della Verità, ha fissato queste assurde proporzioni? Nessun cervello umano avrebbe potuto essere abbastanza acuto. È chiaramente una vistosa parata dell'arte e un colossale vanto della scienza." (GROUTH, "Mithridatum". Encyclopaedia Romana).
Gentile da Foligno: oro, pietre preziose e precetti dietetici
Gentile da Foligno, docente di prestigio, che ebbe come allievo, tra gli altri, Tommaso del Garbo, fu profondo conoscitore della medicina greca e araba, attivo a Perugia e vittima lui stesso a Foligno, il 28 giugno 1348, esponendosi in prima persona per curare i malati colpiti dalla peste bubbonica.
Gentile scriverà tre diverse stesure per la peste, una, molto ampia per i cittadini di Perugia; un'altra per le personalità di spicco di Perugia, nella quale fornisce e dispensa consigli personalizzati e infine una terza redazione per la città di Genova. Nel Tractatus de pestilentia et causis eius et remediis (1348), rivolto ai medici di Genova, sottolineava che ogni cibo doveva essere imbevuto nel vino, le sostanze odorose impiegate: canfora nel caso di pasti caldi e selaginella nel caso di pasti freddi, per sanare quell'area. I cibi acidi considerati alimento ottimale, aggiungendo salasso e isolamento dei malati come basi della terapia contro la peste.
Il medico folignate, sostenitore della triaca quale miglior terapia di base, sapendo che certi componenti non erano alla portata di tutti perché irreperibili o molto costosi, prescriveva per i poveri una ricetta che sostituiva erbe e spezie rare con altre reperibili e comuni, in aggiunta a varie accortezze da tener presente.
Il Gentile, a chi se lo poteva permettere, consigliava, a seconda dell'andamento che la peste sembrava seguire, prima di vuotare il corpo dagli umori avvelenati, poi di ricorrere a delle confezioni cordiali, cioè al rafforzamento del cuore che è l'organo che maggiormente viene colpito dalle esalazioni velenose; in tali confezioni cordiali compaiono ingredienti come oro, perle rare, pietre preziose. Gentile inoltre è il primo forse che suggerisce una composizione, una specie di sciroppo di acqua rosacea (l'acqua distillata di rose, che era già ben nota e che era già un rimedio della scuola salernitana), in cui va immersa ripetutamente una verga d'oro fino a che questa soluzione appaia del colore dell'oro. In mancanza dell'oro si può usare anche una moneta aurea, un fiorino; se il paziente se lo può permettere, gli si somministra questa pozione oppure dell'oro potabile vero e proprio, di cui appunto Gentile fornisce la ricetta, che sarà un oro liquefatto e in questo modo reso potabile e cordialissimum (ovvero mollo efficace nel sostenere il cuore).
Seguendo il consiglio all'uso di pietre preziose, metodicamente esposto dall'Avicenna nel suo Canon medicinae, dove il medico persiano suggeriva di mischiare, previa polverizzazione, alcune pietre preziose (GABRIELLI, 1984, p. 95). Oltre all'oro, tra le più ricorrenti miscelature si nota questa combinazione: perle, karabé (ambra) e corallo, come base di cura per rafforzare il cuore e amalgama primo di miscela per preparare medicine di qualità fredda; anche polvere d'argento e di giada tra le più prescritte in queste ricette.
Avicenna e Galeno: il quadro teorico
La medicina della peste nel Tre–Quattrocento si fondava ancora sui modelli di Galeno e Avicenna: teoria degli umori, qualità dell'aria, cause astrali e norme dietetiche.
I Consilium e i Regimina contro la peste nera del 1348 rappresentarono i primi manuali preventivi e curativi d'Occidente e nel caso dei Regimi, si trattava soprattutto di disposizioni dietetiche rivolte, sia ai medici che ai profani. I primi Consilia si posero in continuità con le teorie di Galeno e di Avicenna (BENEDICENTI, Milano, 1947, I, p. 314), anche se questi antichi saggi non miravano davvero a innovare: il loro scopo primario fu soprattutto riconoscere, riscrivere ed elencare nozioni ricevute dal passato.
Questo fa riflettere sul livello delle arti mediche, delle conoscenze e dei limiti dell'epoca e il modo in cui esse si adattarono di fronte a un evento di tale portata (WINSLOW, DURAN-REYNALS, 1948, pp. 747-765).
Il lavoro che i medici affrontano, durante e dopo la Grande Peste del 1348, fu quello di ricercare quale fosse il più potente elemento all'interno dei vari Consilium.
L'oro fu uno dei maggiori indiziati, per valore ed esclusività, quale metallo più capace di agire all'interno del corpo e di cacciare il veleno che stava aggredendo il cuore, come sosteneva la teoria degli umori suggerita dall'Avicenna (CRISCIANI C., 2014).
Nel suo secondo libro, Canon medicinae, l'oro è definito un farmaco cordiale, cioè sostiene il cuore. Per una serie di analogie e di convinzioni, il cuore è il centro dell'organismo ed è, secondo la teoria aristotelica, il membro principale dell'organismo; a sua volta, l'oro è il più elevato e perfetto tra i metalli; inoltre l'oro ha dalla sua una struttura estremamente temperata, cioè estremamente equilibrata, e quindi sarebbe in grado di portare lo stesso equilibrio di cui è dotato, agli organi a cui viene applicato (AVICENNA, Canon medicinae) Tra le svariate critiche che oggi possiamo fare, una ad esempio è che i minerali non sono digeribili.
Giovanni da Rupescissa: il francescano visionario
Chi tentò decisamente la via dell'oro fu il frate Giovanni da Rupescissa (Jean de Roquetaillade; Marcolès, 1310 ca.–Avignone, 1365), occitano con una competenza medica modesta, disponeva invece di una conoscenza alchemica notevole, celebre uno dei suoi codex, il Liber lucis, testo alchemico dove scrisse il procedimento che permetterebbe di trasmutare tanto il piombo quanto i metalli più vili in oro, una roba d'un farlocco incredibile a leggerla con gli occhi odierni, ma che allora faceva discutere.
Proclamandosi e dichiarandosi profeta, fu un apocalittico che andava farneticando numeri e date circa la fine del mondo e l'avvento dell'Anticristo, minacciosa figura che preluderebbe agli «ultimi tempi», come annunciava anche il domenicano Vincenzo Ferreri e molti altri catastrofisti in seguito per tutto il XIV e il XV secolo. Un francescano spirituale che aveva come riferimento l'ala più estremista del francescanesimo pauperistico, fu a lungo imprigionato in diverse carceri francesi, non tanto a causa di eretiche tesi scientifiche, quanto per motivi di ordine religioso.
Perennemente incarcerato in diverse cittadine francesi, accusato di farneticazioni dialettiche, ma implicitamente additato e accusato di una sua vicinanza alla linea del "beghinismo" e correnti minori vicine, che giravano allora in quelle aree e tacciate come "eretiche" a causa della loro interpretazione esclusivamente letterale delle Sacre Scritture, con tesi influenzate a loro volta dagli insegnamenti degli albigesi (catari). È dunque per lo meno lecito il sospetto che il vero motivo della carcerazione del Rupescissa e soprattutto dell'avversione dei suoi superiori nei suoi confronti, sia da cercare più nelle sue posizioni in materia di povertà e di obbedienza, che nella sua attività di profeta e visionario.
Giovanni, che secondo i coevi veniva definito un phantasticus (definizione vicina a: visionario, chimerico, un po'pazzoide), non è però un delirante sprovveduto, scrivendo anche un testo "De consideratione quintae essentiae", in cui programmaticamente dichiarava di voler presentare dei rimedi per i poveri, cioè per i pauperes Christi, che a suo vedere sono sia i poveri evangelici, alla cui schiera il francese aderisce, che più in generale, i semplici poveri, i quali non possono accedere a delle medicine costose.
Il francescano presenta una ricetta che impiega tutti gli ingredienti considerati efficaci nei trattati contro la peste e tra questi la quintessenza dell'oro, che però in questo caso sarebbe alla portata anche dei poveri. Il monaco infatti fornisce indicazioni su come preparare, in una specie di secchiellone, la quintessenza che è poi l'acquavite odierna, cioè un'acqua di vino distillata molte volte, dotata quindi di forte calore, di forte attività oltre ad un tasso alcolico altissimo. Ci si aggiunge poi dell'oro che viene particolarmente lavorato per essere inserito in questa soluzione di alcool. "Anche i poveri se ne possono giovare: si faranno prestare - suggerisce il Phantasticus - delle monete, le inseriranno in questa soluzione di acquavite fortissima che catturerà, per la sua forza, le virtù e non la materialità dell'oro, e cioè le qualità per cui l'oro è un metallo incorruttibile. Fatto ciò, il povero potrà rendere la moneta che ha usato, identica come prima, vel quasi."
Questo suo prodotto aurificato, è simile a quello che descrisse Gentile da Foligno, ma la preparazione è più dettagliata, essa prevede infatti, come prima tappa, la distillazione dell'acquavite (acqu'ardente), indi l'uso della acquavite come contenitore dell'oro, e alla fine si potrà disporre di un'acqua ardente così aurificata, cioè dotata dei poteri dell'oro o del sole: rimedio eccellente contro la lebbra e la peste. Così il francescano unisce i due tragici malanni, che verrebbero curati da un unico rimedio.
Non è cosa nuova la distillazione delle acque nella farmacologia sia araba che latina: qui si aggiunge il potenziamento dell'acquaforte con la trasformazione dell'oro che vi deve essere congiunto e inglobato. Un estratto liquido preparato ad altissima gradazione che Giovanni da Rupescissa descrisse come taumaturgico: "è meraviglioso e stupendo, di effetto istantaneo, assolutamente eccezionale e dotato di una fragranza indescrivibile; non si tratta di un miracolo, anche se qualcuno potrà ritenerlo tale perché la potenza di quest'acquavite aurificata fa resuscitare i morti. Giacché – precisa - non dico che fa resuscitare i veri morti, ma sostiene i moribondi, quelli che sono sull'ultimo loro passaggio, perché un piccolo sorso di questo rincuorante cordiale potentissimo li fa meravigliosamente rinvenire, tanto che essi possono adempiere agli ultimi atti che non ci si aspetterebbe più da loro, e cioè ricevere i sacramenti e fare testamento." (CRISCIANI C., 2014).
Giovanni della Penna e lo studium Angioino. Elettuari, pietre preziose e il cuore come centro dell'organismo
Ebbe molta fama anche il contributo della facoltà medica dello studium Angioino di Napoli, soprattutto con Giovanni della Penna*, celebre medico che insegnò lì dal 1344 al 1387.
L'uso di pietre preziose come ingredienti fondamentali per la preparazione di appositi elettuari, di precetti dietetici e medici erano suggeriti dal docente napoletano, che non solo ribadiva le misure preventive e curative come l'allontanamento dai malati, la purificazione del sangue tramite purghe e salassi, indicazioni riguardo a dieta ed attività fisica, ma forniva anche un'elaborata ricetta per un elettuario da assumere prima e dopo i pasti in cui figuravano ambra, coralli, smeraldi e cristalli.
Somministrati dopo che il paziente aveva contratto la malattia, avevano lo scopo di rafforzare il cuore. Egli ne consigliava in particolare un medicinale a base di acqua di rose, zucchero, coriandolo, sandalo e cannella, «al quale è possibile anche mescolare pietre preziose» proprio per incrementarne l'effetto di confortatio sul cuore.
Spesso, quando le pietre preziose comparivano in relazione alla materia medica, lo facevano sotto forma di amuleti, ossia, non da assumere, bensì da appendere al collo o al polso (MARASCHI, 2020, cit. pp. 1-35); più raramente venivano ridotte in polvere – quasi certamente per via del loro valore intrinseco – e somministrate per via orale (WEILL-PAROT N., 2004, pp. 77-78).
La tesi di Giovanni della Penna, per via del suo rifiuto dei precetti della medicina astrologica, influenzò il pensiero di importanti cronisti dell'epoca, tra i quali Giovanni Boccaccio, conosciuto alla corte degli Angiò. Nonostante il medico napoletano accettasse che il motivo di tale processo di corruzione umorale scaturiva dall'aria malsana, riteneva che non tutti erano soggetti agli effetti dell'aria pestilenziale allo stesso modo; esso riservava alla singola persona e al suo specifico, personale, bilanciamento umorale, la possibilità di essere vittima della morte nera. L'originalità del suo trattato stava anche per la critica ad alcuni suoi contemporanei che millantavano verità sulle cause universali della pestilenza. Tra questi, egli menzionava espressamente i medici ignoranti e incapaci (imperiti) e – più genericamente – i folli (ydeoti) che credevano che il morbo provenisse da Dio oppure dalle stelle.
L'eredità dei Consilium
La trasmissione delle scienze greche da parte di Avicenna e la traduzione delle sue opere in latino, come di altri medici arabi meno noti, provocarono il primo il risveglio scientifico nell'Europa meridionale, una rinascita che iniziò in Sicilia nel XII secolo, che si estese poi a Salerno, Toledo, Barcellona, Parigi salendo fino al nord Europa. È evidente, dunque, l'influenza del medico persiano sia in maniera diretta su docenti e medici di prestigio come il catalano Jacme d'Agramont, Giovanni Della Penna, la Facoltà medica di Parigi o Gentile da Foligno, quanto di riflesso su ciarlatani, medici improvvisati o alchimisti autodidatta come Jean de Roquetaillade.
Solo nel corso del XVI secolo la situazione cominciò a evolversi, prima di tale svolta, le teorie accreditate per la spiegazione dell'epidemia furono sostanzialmente due: la teoria miasmatica e quella contagionista, che contrapposero per lungo tempo medici universitari e autorità pubbliche. La prima, largamente maggioritaria e conosciuta anche come teoria aerista o anticontagionista, enfatizzava il ruolo dell'aria che, una volta corrotta e alterata, era responsabile di trasportare e diffondere miasmi tossici; ipotizzando che la peste non fosse contagiosa. La seconda, in opposizione, circoscriveva le cause di diffusione del morbo al vero e proprio contagio interpersonale attraverso prossimità e contatto.
Sarà solo verso la fine del XVIII secolo che comincerà ad affermarsi un nuovo metodo scientifico e bisognerà aspettare fino agli ultimi decenni del XIX secolo per individuare definitivamente la causa dell'epidemia della peste nera (GIOVANNI DELLA PENNA, Tractatus, cit., p. 164; A. MONTGOMERY CAMPBELL, The Black Death and Men of Learning, New York, Columbia University Press, 1931, p. 38 e pp. 90-91; GIOVANNI DELLA PENNA, Consilium contra pestem, cit., p. 346).
Luca Droller Bisance
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Cfr. CAPRINO L., Il Farmaco, 7000 anni di storia, dal rimedio empirico alle biotecnologie, Armando Editore, Roma, 2011, pp. 64-99; GABRIELLI F., La peste nera, Les épidemiesde l'homme, (a cura di) ROUFFIE' J., SOURNIA J.C., Storica National Geographic, Flammarion, Parigi, 1984, pp. 94-97; COSMACINI G., Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari, 2016; BENEDICENTI A., Malati, medici e farmacisti. Storia dei rimedi traverso i secoli e delle teorie che ne spiegano l'azione sull'organismo, 2 voll., Hoepli, Milano, 1947; MAHADIZADEH S., KHALEGHI GHADIRI M., GORJI A. Avicenna's Canon of Medicine: a review of analgesics and anti-inflammatory substances. Avicenna J Phytomed, 2015; 5 (3), pp. 182-202, in National Library of medicine, National Center for Biotechnology Information; TUCHMAN B., Uno specchio lontano. Un secolo di avventure e di calamità. Il Trecento, (trad. di) PARONI G., Milano, Mondadori, 1979, pp. 774; Mark Grant, La dieta di Galeno. L'alimentazione degli antichi romani. Trad. di Alessio Rosoldi, Ed. Mediterranee, Roma, 2005.
*Su Giovanni Della Penna vedi: *A. MARASCHI, Dieta e pietre preziose contro un morbo "meraviglioso": il relativismo scientifico e l'originalità di Giovanni della Penna di fronte alla Peste Nera, Idomeneo (2021), n. 32, 59-76 ISSN 2038-0313 - DOI 10.1285/i20380313v32p59 https://siba-ese.unisalento.it, © 2021 Università del Salento * _* Centro Interuniversitario di Ricerca "Seminario di Storia della Scienza", Università degli Studi di Bari "Aldo Moro", andrea.maraschi@uniba.it. Ricerca finanziata dal MUR Prin 2017, The uncertain borders of nature. Wonders and miracles in Early modern Kingdom of Naples, dir. Prof. Francesco Paolo de Ceglia; inoltre: J. ARRIZABALAGA, Facing the Black Death: Perceptions and Reactions of University Medical Practitioners, in L. GARCÍA-BALLESTER, R. FRENCH, J. ARRIZABALAGA e A. CUNNINGHAM, a cura di, Practical Medicine from Salerno to the Black Death, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 237-88, a p. 240; J. VENY I CLAR, a cura di, Regiment de preservació de pestilencia de Jacme d'Agramont (s. XIV). Introducció, transcripció i estudi lingüístic, Tarragona, Excelentísima Diputación Provincial, 1971, pp. 47-93.



La via Francigena
Via Francigena
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Vie Romee in Italia
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Umanesimo: alcuni protagonisti del XV secolo
L'affresco della Cappella dei Magi, realizzato da Benozzo Gozzoli nel 1459 per il Palazzo Medici Riccardi, rappresenta il Corteo dei Magi come una fastosa processione principesca. L'opera, concepita quale manifesto dinastico dei Medici, integra ritratti dei membri della famiglia e di esponenti delle élite umanistiche e politiche fiorentine, inserendoli in un paesaggio simbolico che sottolinea la legittimazione politica e culturale della casata medicea nella Firenze del Quattrocento.
Parallelamente l'affresco funziona anche come costruzione simbolica dell'immagine che l'Occidente quattrocentesco ha verso l'oriente romano di Bisanzio: un luogo di sapere antico, di cerimoniale sontuoso e di legittimità culturale.
In tal senso, l'affresco mette in scena l'appropriazione occidentale dell'eredità bizantina, trasformando la memoria dell'ultimo impero romano in un tassello utile alla definizione della nuova identità politica e umanistica della città.
«Come, quando si trascurano le attività militari, si distruggono le
armi, così è inevitabile che, quando si disprezzano sapienza e opere letterarie,
si distrugga quanto ad esse conduce; ma è possibile di nuovo
forgiare facilmente armi dal ferro (anche se, forse, ciò non è bello: possa
accadere che, tolta di mezzo ogni guerra, anche i suoi strumenti vadano
del tutto in rovina!), mentre sapienza e grandi opere letterarie, una volta
distrutte, non facilmente si ricompongono, perché non nascono da un
qualsiasi metallo, ma da mente e intelletto, i beni più rari in nostro possesso.»
(M. Crisolora, epistola a P. Strozzi, 1411-13)*
Manuele Crisolora
Manuele Crisolora (Bisanzio, 1355 – Costanza, 1415), nato in un'antica e illustre famiglia bizantina, fu consigliere, diplomatico e amico dell'imperatore Manuele II Paleologo. Discepolo di Demetrio Cidone e in seguito di Giorgio Gemisto Pletone, si formò in una cultura classica che avrebbe trasmesso all'Occidente.
Nel 1397, su iniziativa del cancelliere Coluccio Salutati, fu invitato a Firenze per insegnare greco allo Studium. L'invito, sostenuto anche dal prestigio di Niccolò Niccoli e dalle risorse di Palla di Nofri Strozzi, fu accompagnato da epistole solenni, laute promesse e un compenso, si dice, di centocinquanta fiorini annui, poi portati a duecentocinquanta, con la facoltà di tenere lezioni private.
Crisolora acconsentì, sia grazie alla stima che aveva dell'umanista Niccoli e della sua cerchia, che dalla reputazione e dalla disponibilità economica fornita dallo Strozzi.
Il successo fu immediato e il suo insegnamento segnò un punto di svolta per la prima generazione di umanisti. Fra i suoi allievi oltre al Salutati, figurano Leonardo Bruni, Guarino da Verona, Roberto de' Rossi, Cencio Rustici, Palla Strozzi e Iacopo di Angelo da Scarperia.
Con loro Crisolora inaugurò una nuova concezione della traduzione: non più la resa ad verbum, letterale e scolastica, ma la resa ad sententiam, attenta al senso del testo e alle esigenze della lingua d'arrivo. Questa svolta metodologica aprì la strada a una comprensione più viva dei classici greci.
Il bizantino compose inoltre la prima grammatica greca destinata agli italiani, organizzata in forma di domande e risposte semplici, che divenne uno strumento fondamentale per l'apprendimento.
Fra i manoscritti che introdusse in Occidente, figurava la Geographiké hyphegésis di Claudio Tolomeo, la "Geografia", la cui riscoperta segnò un vero spartiacque nella rappresentazione dello spazio geografico e nella cultura cartografica occidentale.
Il ruolo didattico e culturale di Crisolora fu decisivo: attraverso i suoi insegnamenti i fiorentini acquisirono non solo la conoscenza del greco, ma anche una forma mentis più aderente allo spirito classico, in contrasto col metodo scolastico medievale. In tal modo, egli fu il primo dei protagonisti dell'avvio dell'Umanesimo civile in Italia.
Alessandro Bellucci
Vedi: Émile Legrand, Notice biographique sur Manuel Chrysoloras, Parigi, 1894; Remigio Sabbadini, CRISOLORA, Manuele, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931; Manuele Crisolora, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
* Estratto dalla lettera consolatoria di Manuele Crisolora a Palla di Nofri Strozzi, Vedi Antonio Rollo in «Studi umanistici», 4-5 (1993-1994), pp. 7-85.
Giovanni Crisolora
Giovanni Crisolora (Bisanzio 1360 – 1422). Nipote e allievo di Manuele Crisolora, come lui studiò e insegnò a Costantinopoli. Viaggiò con la corte imperiale di Manuele II Paleologo in Europa e in Italia, dove visse: dapprima a Pisa, quindi a Bologna, in cattedra per circa tre anni come influente magister nella prima diffusione delle lettere greche in Occidente. Sposò Manfredina Doria, figlia di Ilario, mesazōn, gran cancelliere di Manuele II. Fu inoltre patrono e insegnante del collega umanista Francesco Filelfo, che sposò sua figlia Teodora.
Vedi: Encyclopædia Britannica, 11th edition, 1911. Volume V06, p. 320.
Giorgio Gemisto Pletone
Giorgio Gemisto Pletone (Bisanzio ca. 1355/1360 – Mystra ca.1452/1454). Comunemente conosciuto come Gemisto Pletone, fu uno studioso greco e uno dei più rinomati filosofi della tarda epoca bizantina. Fu un pioniere principale della rinascita degli studi greci nell'Europa occidentale. Come rivelato nella sua ultima opera letteraria, i Nomoi o Libro delle Leggi, che fece circolare solo tra amici intimi, egli respinse il Cristianesimo a favore di un ritorno al culto degli dèi ellenici classici, mescolato con la sapienza antica basata su Zoroastro e sui Magi.
Nel 1438–1439 reintrodusse le idee di Platone in Europa occidentale durante il Concilio di Firenze, in un tentativo fallito di riconciliare lo scisma tra Oriente e Occidente. Pletone formulò inoltre la sua visione politica in diversi discorsi lungo tutta la vita.
L'affermazione, in uno di questi discorsi, secondo cui "Noi siamo Elleni per razza e cultura" e la sua proposta di un Impero bizantino rinato secondo un sistema di governo ellenico utopico, con centro a Mistras, hanno generato discussione sull'identità bizantina e su quella greca moderna. In questo senso, Pletone è stato definito sia "l'ultimo degli Elleni" sia "il primo dei Greci moderni".
Fonti: Woodhouse, Cristopher Montague, George Gemistos Plethon– The Last of the Hellenes (Oxford, 1986); Runciman, Steven, The Last Byzantine Renaissance (Cambridge, 1970); .si veda anche: Wikipedia, the free encyclopedia.
Bessarione
Basilio Bessarione da Trebisonda, (Trebisonda 2 gennaio 1403 – Ravenna 18 novembre 1472 ) è stato un chierico greco bizantino, cardinale della Chiesa cattolica e uno degli studiosi di spicco che hanno contribuito alla significativa rinascita delle lettere nel XV secolo.
È una delle figure più importanti dell'umanesimo bizantino e italiano dell'era storico-mondiale della transizione dal Medioevo al Rinascimento
Fu istruito nella filosofia neoplatonica da Giorgio Gemisto Pletone e in seguito servì come patriarca latino titolare di Costantinopoli. Infine, fu nominato cardinale ed eletto due volte al soglio papale.
Vedi: Giorgio Sfranze, Paleologo. Grandezza e caduta di Bisanzio, Sellerio, Palermo 2008; Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967) - BESSARIONE, Lotte Labowsky.
Demetrio Calcondila
Demetrio Calcondila, nato ad Atene nel 1423 da una famiglia dell'aristocrazia bizantina, fu uno dei più importanti umanisti greci emigrati in Occidente dopo la caduta dell'Impero d'Oriente. La sua vita si colloca nel cuore del Rinascimento e contribuì in modo decisivo alla rinascita degli studi classici greci in Italia.
Cresciuto in un ambiente colto e legato alla tradizione ecclesiastico-umanistica ateniese, studiò retorica, grammatica e filosofia secondo il modello bizantino. Nei primi decenni della sua vita fu coinvolto nelle complesse vicende politiche dell'Attica e del Peloponneso, segnate dall'avanzata ottomana.
Intorno alla metà del XV secolo lasciò la Grecia per l'Italia, inserendosi nella rete degli eruditi greci che, dopo il Concilio di Ferrara-Firenze (1438–1439), avevano trasformato la penisola in un centro di studi greci senza precedenti.
Stabilitosi a Firenze, Calcondila divenne allievo e poi collega degli umanisti che ruotavano attorno ai Medici. Fu noto come eccellente filologo e maestro di greco, capace di insegnare la lingua con un rigore sistematico ritenuto superiore a quello di molti suoi contemporanei.
Tra i suoi contributi più importanti si colloca la curatela dell'editio princeps di Omero: e, stampate a Firenze nel da Demetrio Della Torre per i Tipografi dei Giunti, sotto il patrocinio di Lorenzo de' Medici, Iliade e Odissea, stampate a Firenze nel 1488 sotto il patrocinio di Lorenzo de' Medici.
Calcondila fu inoltre maestro di molti studiosi destinati a esercitare un'influenza di lungo periodo sulla cultura europea, tra cui Angelo Poliziano e altri allievi che contribuirono alla diffusione del greco nelle scuole italiane e nelle università germaniche.
Chiamato dagli Sforza nel 1491, Calcondila insegnò anche a Milano, dove tenne corsi di lingua e letteratura greca rivolti all'élite intellettuale e politica della città. Qui contribuì alla costituzione di una biblioteca umanistica aggiornata e alla formazione di copisti e grammatici che continuarono la sua opera.
Le sue lezioni milanesi furono considerate tra le più autorevoli dell'epoca e favorirono la crescita di una scuola di studi greci, complementare a quella fiorentina.
Oltre alla già citata edizione omerica, Calcondila si dedicò alla redazione di grammatiche e compendi per l'insegnamento del greco antico, commentari a testi di retori e oratori classici, traduzioni e revisioni di opere greche destinate ai centri di studio italiani.
Gran parte dei suoi scritti circolò in forma manoscritta, soprattutto appunti di lezione copiati dagli studenti, secondo la pratica tipica dell'umanesimo del Quattrocento.
Calcondila trascorse l'ultima parte della sua carriera insegnando a Pavia, sempre sotto la protezione degli Sforza.
Morì a Milano nel 1511, all'età di circa ottantotto anni.
Eredità
La figura di Demetrio Calcondila occupa un ruolo centrale nella trasmissione del patrimonio classico greco all'Europa rinascimentale. Le sue lezioni e la sua tecnica filologica contribuirono in modo decisivo alla formazione dello studio moderno dei classici. L'editio princeps di Omero (Firenze, 1488) fu opera sua.
Dedicò parte della sua attività didattica allo studio e alla divulgazione della Suda, dizionario enciclopedico universale della cultura greca, redatto a Bisanzio nel X secolo con migliaia di voci su storia, letteratura, diritto, mitologia e vita quotidiana. Come editore dell'editio princeps della Suda (in greco), pubblicata a Milano nel 1499, Calcondila diffuse un'opera esemplare che stimolò non solo ampie speculazioni dialettiche, ma anche nuovi modi di affrontare e interpretare in maniera critica tanto il lessico greco quanto i testi in generale, contribuendo in modo decisivo alla formazione della cultura umanistica in Occidente.
Leonardo da Vinci operò a Milano dal 1482 al 1499, in età matura, in un ambiente che, durante la sua permanenza, fu arricchito anche dall'insegnamento di Demetrio Calcondila. La presenza del grande ellenista, attivo in città fra il 1491 e il 1497, contribuì a elevare il livello degli studi greci presso la corte di Ludovico il Moro e a diffondere strumenti filologici, testi e metodi che contraddistinsero la stagione culturale nella quale Leonardo sviluppò alcune delle sue ricerche artistiche e scientifiche più significative. Tuttavia non è mai stato documentato un rapporto diretto fra i due.
Cfr. BEC C., Cultura e società a Firenze nell'età della Rinascenza, Salerno Ed., Roma, 1981; GARIN E., L'umanesimo italiano, Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Editori Laterza, 1978; CAMMELLI G., I dotti bizantini e le origini dell'Umanesimo, III, D. C., Firenze 1954, p. 85; Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973) - CALCONDILA, Demetrio di Armando Petrucci.
Laonico Calcondila
Laonico Calcondila (Atene c. 1430 – 1490 ) fu un importante storico greco del XV secolo, proveniente dall'omonima e illustre famiglia ateniese, che diede vita a una moltitudine di studiosi. Cugino di Demetrio, Laonico ebbe come insegnante Giorgio Gemisto Pletone. È l'ultimo grande storico dell'Impero bizantino e la sua opera costituisce una delle fonti più importanti per la caduta di Costantinopoli nel 1453, così come per altri cruciali eventi storico-mondiali del suo tempo.
Dopo la cattura di Costantinopoli fuggì, come molti letterati greci in Italia, dove scrisse la sua Historiarum demonstrationes.
Cfr. Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana - Calcòndila, Laonico; Laonicus Chalcocondyles, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Giorgio Crisococca
Giorgio Crisococca. Fu professore all'accademia del Monastero Xénôn du Kral (Monastero di Stoudios) tra gli anni 1410 e 1430, che fu in particolare il maestro di Basilio Bessarione, Giorgio di Trebisonda e Francesco Filelfo. Umanista noto ed apprezzato per il rigore filologico nella copiatura di testi, causa per cui Giovanni Aurispa si rivolse a lui per procurarsi codici greci. Era un magister di retorica e insegnò anche fisica, matematica e astronomia all'università della Magnaura a Costantinopoli.
Da non confondere col più celebre Giorgio Crisococca, scienziato, astronomo e filosofo vissuto sempre a Costantinopoli a metà del XIV secolo. Non ci è dato sapere se sia stato un diretto legame di parentela.
Vedi: Georgios Chrysococca, Expositio In Syntaxin Persarum, 137 foll., Leiden University Library (Bibliotheca Universitatis Leidensis, Codices Manuscripti, v. 2).
Giovanni Cortasmeno
Giovanni Cortasmeno (Bisanzio 1370 ca. – 1439 ca.) fu notaio, bibliofilo, astronomo, scrittore, insegnante con significativi lavori di scrittura e traduzione, in seguito fu monaco, con il nome monastico di Ignatios e alla fine fu nominato metropolita di Selimbria. Fervente bibliofilo, il Cortasmeno si distinse sia come scrittore che come insegnante. Fu autore di opere filologiche, storiche e filosofiche, brevi testi nei campi della retorica, della legge, delle lettere e più di 50 epistole a vari coevi. Scrisse un'agiografia su Costantino, Elena, commenti su Giovanni Crisostomo e Aristotele, un trattato sulla sillabazione, oltre ad un'enorme raccolta di testi astronomici. Tra i suoi allievi, gli studiosi Francesco Filelfo, Basilio Bessarione, Giorgio Calcondila (Giorgios Chalkokondyles; c. 1390 - c. 1465), Marco di Efeso (c. 1392 –c. 1444), Giorgio Corti (Gennadio Scolario II di Costantinopoli, nato Georgios Kourtesios Scholarios; c. 1400 – c. 1473) ed altri.
Della biblioteca di Cortasmeno si conoscono almeno 24 manoscritti sopravvissuti che includono codici di Euripide, Aristotele, Plutarco, Luciano, Libanio, storici bizantini e l'introduzione all'astronomia di Teodoro Metochita. Cortasmeno è anche ricordato per aver rilegato il famoso erbario del VI secolo, il Codex Aniciae Julianae di Dioscoride, che fece restaurare e rilegare, aggiungendovi un indice e ampie glosse.
Cfr. Alice-Mary Talbot, Chortasmenos, John, in Aleksandr Petrovič Každan (a cura di), The Oxford Dictionary of Byzantium, pp. 431–432, ISBN 0-19-504652-8.
Teodoro Gaza
Andrea Giovanni Lascaris, detto Giano
Giorgio di Trebisonda, detto il Trapezunzio
Umanisti italiani, alcuni dei protagonisti
Coluccio Salutati
Carlo Marsuppini
Giovanni Malpaghini
Ambrogio Traversari
Giannozzo Manetti
Marsilio Ficino
Giovanni Pico della Mirandola
Cristoforo Landino
Flavio Biondo
Palla di Onofrio Strozzi
Leonardo Bruni
Francesco Filelfo
Guarino da Verona
Agnolo Ambrogini, detto il Poliziano
Giorgio Antonio Vespucci
Lorenzo Valla
Paolo Dal Pozzo Toscanelli
Paolo Dal Pozzo Toscanelli. (1397 ca. – 1482 ca.)Astronomo, astrologo, matematico, medico e geografo. Studiò nell'università di Padova, dove strinse amicizia con Niccolò Cusano, e quivi s'addottorò, col fratello Piero, nel 1424. Si stabilì in seguito a Firenze dove s'inscrisse nella matricola dei medici e degli speziali il 21 giugno 1425.
Amico di Filippo Brunelleschi, gli diede, come afferma il Vasari, lezioni di geometria, e intervenne poi più volte nella costruzione della cupola del duomo. Dell'altissima fama in cui salì presso i concittadini è prova l'epigramma che gli dedicò (in greco) il Poliziano e che suona così: "Paolo percorre coi piedi la terra, e con la mente il cielo stellato, ed è a un tempo mortale e immortale. O Dei, o Parche, non ce lo rapite, e concedete che di lui possano godere gli abitanti della terra e quelli del cielo".
Nel 1439, il filosofo greco Giorgio Gemisto Pletone, presente al Concilio di Firenze, fece conoscere al Toscanelli i lunghi viaggi, gli scritti e le mappe del geografo greco-romano Strabone (composte intorno al I secolo d.C.), fino ad allora sconosciuto in Italia.
Quasi 35 anni dopo, il Toscanelli avrebbe dato seguito a questa conoscenza sia a Cristoforo Colombo, con due celebri epistole, che ad Antonio Giorgio Vespucci, zio e precettore del più famoso Amerigo.
Alessandro Bellucci
Vedi: Gautier Dalché, Patrick (2007). "The Reception of Ptolemy's Geography (End of the Fourteenth to Beginning of the Sixteenth Century)". In David Woodward (ed.). Cartography in the European Renaissance. The History of Cartography. Vol. 3. Chicago: University of Chicago Press. Pp. 285–364; Truffa, Giancarlo (2007). "Toscanelli dal Pozzo, Paolo". The Biographical Encyclopedia of Astronomers. Springer: 1147–1148; Ángel de Altolaguirre y Duvale (1903). Cristóbal Colón y Pablo del Pozzo Toscanelli. Madrid: Imprenta de Administración Militar. Pp. 6-8; Enciclopedia Italiana (Giovanni VACCA, Roberto ALMAGIA, 1937), TOSCANELLI Paolo dal Pozzo.
Leon Battista Alberti
Poggio Bracciolini
Rinuccio d'Arezzo
Rinuccio d'Arezzo. (1395 ca. – 1470 ca.) Buondelmonti ci teneva a sottolineare la stima verso Rinuccio poiché l'aretino si dimostrerà un pioniere dell'umanesimo diventando un personaggio di chiara fama.
Rimase circa un anno a Creta, fino al 1416 quindi si trasferì a Costantinopoli dove, come il Buondelmonti, ebbe rapporti personali con l'imperatore Manuele II. Tornò in Italia nel 1424, a Roma, a servizio del cardinale veneziano Gabriele Condulmer (futuro papa Eugenio IV) e in seguito fu segretario nella curia di papa Niccolò V, il ligure Tommaso Parentucelli,
Fu maestro di greco e tra i suoi allievi ci furono Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla.
Descrizioni contrastanti nel tracciare la sua personalità, contrariamente al Buondelmonti, che ne riconosceva l'intelligenza, pronta, versatile e aperta, da Roma giungevano commenti e apprezzamenti non certo garbati. Avaro e maldicente (Rinucium avarum et maledicum) risultò da un'epistola e da un'altra "un eccentrico, un po' troppo ricercato nell'aspetto, volubile, più confuso che persuaso nella fede, aggressivo nella dialettica."
Alessandro Bellucci
Vedi: (Cfr. RADIF L., Rinuccio d'Arezzo, D.B.I. – Volume 87, 2016; RINUCCIO ARETINO, Penia, -a cura di Radif L. – (prefazione di) A. Stauble, Franco Cesati Editore, Firenze, 2011).
Cristoforo Buondelmonti, Descriptio insulae Cretae, (ca. 1422); ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 29.25. C. Buondelmonti, Descriptio insulae Cretae, a c. di F. Corner, Venezia, 1755. Anche vedi: M. Cortelazzo (ed.), Cristoforo Buondelmonti. Descriptio insulae Cretae, Firenze, Olschki, 1978.
Catalogo manoscritti BML https://mss.bmlonline.it/
Niccolò Niccoli
Niccolò Niccoli. (Firenze 1365– Firenze 1437) spendeva gran parte dei suoi soldi per l'acquisto di libri, codici e manoscritti. Difficilmente un fiorentino che si spostava verso paesi esteri e non solo cristiani, non avesse una sua richiesta o istruzioni su manoscritti da acquistare. Cultore delle passate civiltà, egli amava vestirsi come gli antichi romani, aveva la casa piena di reperti archeologici, acquistò molti testi greci e latini, fino ad avere una biblioteca ricca e copiosa, ma s'indebitò così tanto, che questa fu poi riscattata da Cosimo de' Medici, suo caro amico. Con i suoi libri, Cosimo fondò il nucleo principale della prima biblioteca pubblica di Firenze, all'interno della Basilica di San Marco, costruita quindi su questo nucleo di eredità Niccoliana.
A Niccolò Niccoli e a Poggio Bracciolini dobbiamo la cosiddetta riforma grafico-umanistica. Negli anni 20 del XV secolo, seguendo un auspicio del Petrarca e del Salutati, che suggerivano un tipo di scrittura meno artificiosa nella calligrafia e meno faticosa da leggere, i due, cercarono di rendere la silhouette, la figura della parola, immediatamente riconoscibile all'occhio del lettore, e quindi scorrere in lettura più rapida. Idearono una scrittura, che rimodellata sulla minuscola carolina diede vita alla minuscola umanistica rotonda che loro chiamarono "littera antiqua". Il tutto diede luogo a quello che è il nostro carattere di scrittura odierno, e al Niccoli in particolare, viene attribuita la messa in atto della scrittura minuscola corsivo-umanistica, detta italica, mentre Poggio è considerato il padre della scrittura umanistica minuscola rotonda. Grazie alla loro riforma grafica, quando fu inventata la stampa, i caratteri tipografici usati in Italia imitarono la minuscola umanistica e non quella gotica. Essi sono i prototipi degli odierni tondo e corsivo.
Vedi commenti coevi: Vespasiano da BISTICCI, 1859, p. 479: "Avendo Nicolao fatto tanti beni, e congregato tanto numero di libri in ogni facultà, cosi in latino come in greco, nel tempo che visse volle che fussino comuni a ognuno, e non aveva da lui se non chi non gliene domandava; e dopo la sua fine volle che fussino come erano istati nella vita; e per questo nel suo testamento gli legò a quaranta cittadini, che ordinassino che se ne facesse una libraria publica, a fine che ognuno ne potesse avere, chi n'avesse bisogno. Furono il numero de'libri volumi ottocento, tra latini e greci, in ogni facultà. Ordinorono questi quaranta cittadini, che questi libri si dessino a Cosimo de' Medici, che gli mettesse in Santo Marco, per adempire la voluntà del testatore, che fussino in luogo publico, con questa condizione, che fussino comuni a tutti quelli che n'avessino bisogno; e a ogni libro nella coperta dinnanzi fusse scritto, come egli erano suti di Nicolao Nicoli".
Vespasiano da BISTICCI, 1859, p. 473: "Quanti uomini degni aveva la città in questo tempo, radi dì era che non andassino a visitare frate Ambruogio (Traversari), ché nel tempo suo Firenze fioriva d'uomini degni. Nicolaio Nicoli, Cosimo de' Medici, Lorenzo suo fratello, Mesēr Carlo d'Arezzo (Marsuppini), Mesēr Gianozo Manetti, maestro Pagolo (Dal Pozzo Toscanelli), ser Filippo di ser Ugolino (Pieruzzi), radi dì era che non vi fussino".
Alessandro Bellucci
Cfr. PETRUCCI, 1992, pp. 162-173; GENTILE S., Storia della Scienza, 2001, Il Rinascimento. Il ritorno della scienza antica.
Ciriaco d'Ancona
Ciriaco d'Ancona (Ancona 1391 – Cremona 1452). "cacciatore del mitico e dell'antico", Ciriaco Selvatici Pizzecolli, ritenuto dai posteri quanto dai suoi stessi contemporanei il padre dell'archeologia o " pater antiquitatis ". È stato un dotto mercante ed un avventuriero del XV secolo e comunque il primo archeologo che si ricordi e che si possa riscontrare con testi scritti, disegni e resoconti verificati.
Ciriaco nacque ad Ancona da Masiella Selvatici e Filippo Pizzecolli. Perse il padre all'età di sei anni e crebbe col nonno materno portandone nome e cognome, nel clima e nell'atmosfera umanistica respirata ad Ancona ai primi del Quattrocento. Aveva ricevuto dalla scuola le basi elementari degli studi classici, ma un'educazione incompleta ed una formazione più mercantile, legata alla sua città, Ancona, da sempre alleata di Costantinopoli, dinamica nei traffici e nelle attività commerciali e marittime.
L'insediamento anconetano a Costantinopoli, formatosi sin dalla seconda metà del secolo XII, aveva sede sul Corno d'Oro accanto alla Porta Veteris Rectoris, tutt'attorno alla chiesa di Santo Stefano e alla Loggia dei mercanti, ove il console aveva la sua sede. L'impero bizantino aveva concesso al comune di Ancona il privilegio di pagare una tassa minima del due per cento sulle mercanzie che entravano o uscivano dal porto della capitale, privilegio del tutto simile a quello di cui godevano genovesi e veneziani, e ciò aveva determinato un grande sviluppo dei traffici con lo scalo marchigiano.
Ciriaco studiò dunque l'aritmetica, il calcolo contabile e le altre materie legate all'esercizio dell'arte mercantile e un latino essenziale per gestire le transazioni commerciali, più che gli studi liberali. Studi che arricchì in seguito, privatamente, con il latino ad Ancona e poi col greco a Costantinopoli.
Fin da piccolo viaggiò per mari, col nonno prima e con dei parenti in seguito, trasportando sull'Adriatico e sul Tirreno merci e materie prime da rivendere. Nel 1412 si spinse, in qualità di scrivano, ad Alessandria d'Egitto, terra di mamelucchi, presso una colonia anconetana che commerciava in tutto il mediterraneo orientale.
Nel 1418 riuscì per la prima volta a salpare per Costantinopoli perché, come scrisse, sognava di andare in quella città. Dal 1420 al 1421 visse nella polis, poi per dieci anni fino al 1431, intraprese una serie di viaggi commerciali che lo portarono in Dalmazia, sul Mar Egeo, sulle coste orientali del Mar Mediterraneo e sul Mar Nero. Nel 1430 riscattò una schiava circassa di nome Chaonia che, come annotò, scelse perché possedeva un'ottima conoscenza della lingua greca. Ad Ancona la fece battezzare (in rito cattolico) con il nome di Clara e fu la sua compagna per tutta la vita (COLIN J., 1981, pp. 28-29 e p. 104, p. 62).
In Egitto tornò nel 1436 visitando il Cairo, le piramidi di Menfi e scoprendo animali esotici come la giraffa, il cammello, l'elefante e il coccodrillo, che disegnerà iniziando una lunga tradizione iconografica di successo.
Il Pizzecolli (che vorrebbe dire colli piceni) cominciò a valutare, stimare, comprare e vendere opere d'arte a ricchi clienti, quando in pochi consideravano il loro valore simbolico, più che dell'oggetto in sé, sottolineando l'importanza di ciò che trattava, iniziando un'opera di risveglio e valorizzazione delle antichità come nessuno aveva fatto prima.
Instancabile e poliedrico grazie al suo 'vedere' da mercante, riuscì a trasformare una vaga curiosità delle classi dirigenti europee per l'antichità in un paradigma culturale capitalizzabile.
Robert Weiss ed Edward W. Bodnar hanno osservato che oltre a mercante d'opere d'arte, antiquario e serigrafista, nell'operato di Ciriaco ci fu anche un lavoro di intelligence che egli svolse tra il 1431 e il 1444 per verificare il livello di affidabilità dei grandi mercanti veneziani e genovesi e delle famiglie aristocratiche che governavano i territori di quello scacchiere militare, spesso in grado di avere un peso determinante sull'esito dei conflitti controllando risorse enormi, porti, navi e informazioni (WEISS R., 1966, pp. 323-337).
Entrambi legati ad amicizie comuni, testimoniato da varie epistole ancora sopravvissute con Niccolò Niccoli, Cosimo de'Medici, Rinuccio d'Arezzo, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni e Francesco Filelfo oltre all'imperatore Manuele II Paleologo con il figlio Giovanni VIII, conosciuti nel 1418, al re di Cipro, a Giano di Lusignano a cui comprò manoscritti contenenti opere di Omero ed Euripide e a Carlo II Tocco, conte di Zante e di Cefalonia, imparentato con Cristoforo Buondelmonti.
Anche da Ciriaco erano già ben conosciute le mappe del Buondelmonti come testimonia un disegno fatto prima del 1449 a margine di un codice del Liber Insularum Archipelagi, oggi a Oxford (Bodleian Library), nel quale è contenuta una sua breve descrizione di Mercurio/Hermes come Dio/Mercante, sfuggente e proteiforme in un disegno del dio divenuto poi classico: con i calzari alati, il galerus, il cappello alla greca e la verga con la quale era capace di addormentare chiunque.
Inoltre, grazie ad un suo schizzo, precedente al 1424, siamo riusciti ad avere disegnata la figura abbigliata alla maniera di Achille, sulla colonna di Giustiniano, prima che fosse distrutta dagli Ottomani.
Infine c'è chi sostiene che una delle versioni buondelmontiane del Liber Insularum Archipelagi, quella del 1430 in dialetto marchigiano, sia proprio opera sua.
.Alessandro Bellucci
Cfr. Giorgio Mangani, Il vescovo e l'antiquario, Il Lavoro Editoriale, 2016; Baldelli, Gabriele. "Su due pretesi ritratti anconetani". Cyriaco d'Ancona e la cultura antiquaria dell'Umanesimo: Atti del convegno internazionale di studio, Ancona 6-9 febbraio 1992; Giuseppe Ragone, 'Umanesimo e 'filologia geografica: Ciriaco d'Ancona sulle orme di Pomponio Mela in: Geographia Antiqua, voll. 3-4 (1994-95), Olschki, Firenze, 1995; Roberto Weiss, Ciriaco d'Ancona in Oriente in: Venezia e l'Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, a cura di A. Pertusi, Sansoni, Venezia, 1966 (pp. 323-337); Edward W. Bodnar, Later travels, with Clive Foss - Harvard University Press, 2003.
Flavio Mitridate
Flavio Mitridate, nato Shemuel ben Nissim Abul-Farag (Flavius Guillelmus Ramundus Mithridates), o anche più semplicemente Guglielmo di Sicilia (Guilelmus Siculus) (Caltabellotta, 1445 circa – 1489 circa), è stato un dottissimo umanista italiano, ebreo siciliano, vissuto nel XV secolo.
Insegnò teologia alla Sapienza, pubblicò un testo sapienziale a Colonia, fu precettore di Giovanni Reuchlin a Lovanio. Tradusse dall'ebraico, dall'arabo e dall'aramaico al latino di una vasta biblioteca di opere cabalistiche. Fu maestro di Pico della Mirandola.
Vedi: JewishEncyclopedia.com. FLAVIUS (RAIMUNDUS) MITHRIDATES: Richard Gottheil, Isaac Broydé
Annio da Viterbo
Annio da Viterbo (in lingua latina: Joannes Annius Viterb(i)ensis), nome umanistico di Giovanni Nanni (Viterbo, 5 gennaio 1437 – Roma, 13 settembre 1502) è stato un religioso, umanista e falsario italiano.
Erudito studioso di teologia, antichità e alchimista, è noto soprattutto per una sua colossale opera di falsificazione storico-archeologica, gli Antiquitatum variarum volumina XVII.
Vedi: Vincenzo De Caprio, Il mito e la storia in Annio da Viterbo, in Presenze eterodosse nel Viterbese tra Quattro e Cinquecento, Atti del convegno internazionale...Viterbo...1996, a cura di V. De Caprio, Roma 2000, pp. 77-103.
Jonathan Schiesaro, I falsi storiografici di Annio da Viterbo nell'Accademia fiorentina, in «Fucata vetustas». Prassi e ricezione del falso nella letteratura e nell'arte del Rinascimento italiano, a cura di S. Ferrilli, M. Nava, J. Schiesaro, Milano, Franco Angeli, 2023, pp. 121-148.
Bibliografie varie: Scriptores Ordinis Praedicatorum, II, pp. 4-7, 718, 827; Touron, Histoire des hommes illustres de l'Ordre de Saint Dominique, Parigi 1743, III, p. 655; P. Labat, Voyage en Espagne et en Italie, Parigi 1830, VII, pp. 95, 108; Burcardo, Liber notarum, in Rerum Italicarum Scriptores, Città di Castello, 1906, II, pp. 125, 339; Dictionn. de géogr. et d'hist. ecclés., I.
Giovanni Aurispa
Giovanni Aurispa (Noto 1376 – Ferrara 1459) Umanista. Viaggiò in Oriente; chiamato nel 1424, quale docente di greco a Bologna, poi allo studio di Firenze, infine a Ferrara e segretario della curia pontificia.
Scoprì, in occasione dei suoi soggiorni a Costantinopoli e in Germania (1433), importanti codici di opere latine e greche, tra cui l'Iliade, tragedie di Eschilo e Sofocle, le Odi di Pindaro, gli Inni di Callimaco, le Argonautiche di Apollonio, l'Antologia palatina, i Moralia di Plutarco. ... Tra gli umanisti della prima generazione, la figura dell'Aurispa non si distingue, per particolari qualità morali o letterarie. Per quanto riguarda il primo aspetto sarà certo da valutare con molta cautela il giudizio che di lui dette Poggio Bracciolini, accusandolo, oltre che di epicureismo, di turpi costumi. Ma che egli fosse uomo di pochi scrupoli è provato a sufficienza dai loschi intrighi che, proprio insieme con il Bracciolini, egli macchinò in Roma, negli ultimi anni della sua vita, contro il Trapezunzio (Giorgio da Trebisonda), cercando per esempio di far credere scritte da questo due fittizie e oltraggiose lettere di Maometto II a Niccolò V, che invece erano state composte da Poggio. Vero è che il contributo originale dell'Aurispa alla cultura umanistica si esercita su un altro piano, sul piano cioè della ricerca, della raccolta e della diffusione dei manoscritti antichi. Che a questa sua attività egli fosse spinto almeno in buona parte dall'amor del guadagno, da un istinto di mercante e di uomo d'affari, non si può certo negare [...]
Con attenzione al proprio interesse economico sapeva condurre il proprio commercio, sia impiegando sottili artifici di esperto imbonitore, sia cautelandosi contro i clienti che fossero sprovvisti di danaro o cattivi pagatori. C'era però, alla radice della sua attività di ricercatore e raccoglitore, anche una genuina passione per il manoscritto antico, nella quale entravano la curiosità dell'investigatore e l'ardore del collezionista piuttosto che l'interesse approfondito dell'uomo di cultura, ma che certo aveva qualcosa di eroico. È appunto questa singolare mescolanza di fiuto affaristico e di passione disinteressata che permise all'Aurispa di diventare, insieme col Bracciolini, il più grande scopritore di testi antichi di tutta l'epoca umanistica [...] La migliore documentazione è l'elenco dei più importanti manoscritti che egli scoprì e portò in Italia. Nel primo viaggio del 1413 e nel secondo viaggio del 1421-1423 furono più di 250 manoscritti ... "
Alessandro Bellucci
Vedi: AURISPA, Giovanni, di Emilio Bigi – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 4 (1962); AURISPA, Giovanni – di Remigio Sabbadini – Enciclopedia Italiana (1930)
Aggiornamenti dedicati a geografia, iconografia, musica e l’arte del mangiare nel Quattrocento.
Riti amorosi a Bisanzio

Di vini e di cibi nel XV secolo
Nati nella Porpora

Dadi, Scacchi e Delta

Bisanzio, l'occidente e la seta
...
Nota sull'autore
Sono Alessandro Bellucci, e Luca Drolles Bisance è il mio anagramma che ho trovato divertente e che certe volte utilizzo nei miei lavori di ricerca, studio, memoria e scrittura.
Mi interesso di storia culturale del Mediterraneo tardo-medievale e quattrocentesco, con particolare attenzione alla cartografia umanistica, ai percorsi di mobilità – dalle vie Francigene alle rotte dell'Egeo – e ai protagonisti delle reti intellettuali del XV secolo. Fra questi, la figura di Cristoforo Buondelmonti, geografo, cartografo e umanista fiorentino, autore del Liber Insularum Archipelagi, opera cardine nella rappresentazione dell'Egeo fra Medioevo e Umanesimo.
Formazione
Laurea magistrale (LM-84) in Scienze Storiche, Università degli Studi di Siena.
Tesi di ricerca: "Cristoforo Buondelmonti, l'umanesimo e la cartografia dell'inizio del XV secolo"
Versione consultabile su Academia.edu.
https://unisi.academia.edu/Bellucci
Laurea in Scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Siena.
Tesi dedicata ai meccanismi retorici, semantici e alle dinamiche linguistiche di propaganda in età contemporanea. Analisi Storia comparata.
Aree di ricerca
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Cartografia medievale e umanistica
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Liber insularum Archipelagi e isolarî del XV secolo
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Reti umanistiche tra Firenze, Costantinopoli e l'Egeo
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Traduzione e circolazione dei testi greci e latini nel Quattrocento
-
Storia culturale del Mediterraneo tardo-medievale
Competenze e interessi di studio
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Storia della geografia e viaggiatori del XV secolo
-
Cristoforo Buondelmonti, Circolo umanista fiorentino
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Vie Francigene e sistemi di mobilità medievale
Struttura del mondo storico/letterario nel XV secolo e cultura materiali
Pubblicazioni e materiali
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